di Luca Canali
La ben nota intelligenza critica e stilistica e l'acuzie della vis polemica di Alfonso Berardinelli rischiano talvolta di trasformarsi in gioco sofistico. E questo mi sembra il caso dell'articolo da lui firmato e intitolato "A scuola non si esce dalla mediocrità", pubblicato il 27 c.m. sul Corriere della sera in dibattito solidale con il grande archeologo Andrea Carandini, che sempre sul Corriere aveva dato fuoco alle polveri discutendo della decadenza culturale del nostro paese, argomento che - a detta di Berardinelli - «non si deve nominare, perché se lo fai ti piovono addosso le vecchie accuse di aristocraticismo, antiprogressivismo, nostalgia del passato, incomprensione dei miracoli e dei regali della democrazia, delle nuove tecnologie, di internet, ecc.» Fino a qui, con qualche piccolo aggiustamento si può anche concordare con Berardinelli, ma quando egli punta il dito contro l'eccessiva importanza data a migliorare la società piuttosto che «la salute mentale dei singoli», nasce il dissenso dal suo pur ragionevole discorso che, mi sembra, esageri in una estremizzazione del contrasto, mentre sarebbe forse opportuno rilevare che una società sana (priva cioè di disoccupati, di precari e comunque di persone che soffrono la fame e il disinteresse dei governi nei loro confronti) potrà esprimere più facilmente individui di mente sana; non proprio dunque mens sana in corpore sano, ma inevitabile mediazione fra società "buona" (non società "affluente", si badi) e individui intellettualmente vivi. Tutto giusto ciò che nell'articolo viene detto sulla vacuità e dei dibattiti televisivi e sul megafono dei partiti, ma il passaggio fra questo tema essenziale e i problemi dell'insegnamento, anzi dell'«arte dell'insegnare» sembra a dir poco troppo brusco. In particolare, io credo che l'arte di insegnare non esiste, e che l'insegnante valido sia solo quello diventato tale sul campo, cioè non proprio autodidatta, come per amore di paradosso auspica Berardinelli, ma colui che non resta abbarbicato ai programmi, e invece è inventivo e anche spregiudicato nei confronti dei testi studiati, e continuamente e virtualmente mischiato ai suoi alunni, senza timore di apparire permissivo mostrandosi comprensivo. Del resto l'eccesso di severità per smania di ottenere meritocrazia per tutti è molto più pericoloso di una vicinanza umana a tutti i propri alunni, sia bravi che scadenti, sia studiosi che svogliati; perfetta in proposito, la sentenza ciceroniana summa iustitia, summa iniuria, "giustizia estrema, estrema offesa".
Sul tema scivoloso della cosiddetta cultura di massa e dei pericoli anche politici che essa comporta, l'A. esprime un giudizio opportuno, anche se può sembrare troppo reciso. Leggiamolo: «Diffondendo cultura e abbassandone il livello, non si è affatto eliminato il bisogno e il mito del superuomo intellettuale. […] La nostra democrazia culturale, che valorizza il trash e canonizza romanzieri e filosofi stagionali, sogna d'altra parte l'eccelso, l'eccezione, la follia geniale. In politica il leader carismatico è il più amato dalle "mediocri" masse». È di un moderno populismo e di antiche tirannidi che Berardinelli intende giustamente parlare. E nella conclusione (quasi uno sberleffo, ma forse soprattutto con una sorta di disperazione), egli strappa il velo che copre un quadro ridicolo, quasi goyesco: «Nell'alta cultura i docenti universitari sognano di presentare prima o poi in tv il loro bestseller narrativo».
Sul tema scivoloso della cosiddetta cultura di massa e dei pericoli anche politici che essa comporta, l'A. esprime un giudizio opportuno, anche se può sembrare troppo reciso. Leggiamolo: «Diffondendo cultura e abbassandone il livello, non si è affatto eliminato il bisogno e il mito del superuomo intellettuale. […] La nostra democrazia culturale, che valorizza il trash e canonizza romanzieri e filosofi stagionali, sogna d'altra parte l'eccelso, l'eccezione, la follia geniale. In politica il leader carismatico è il più amato dalle "mediocri" masse». È di un moderno populismo e di antiche tirannidi che Berardinelli intende giustamente parlare. E nella conclusione (quasi uno sberleffo, ma forse soprattutto con una sorta di disperazione), egli strappa il velo che copre un quadro ridicolo, quasi goyesco: «Nell'alta cultura i docenti universitari sognano di presentare prima o poi in tv il loro bestseller narrativo».
«Liberazione» del 31 gennaio 2011
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