di Alessandro De Nicola
In Germania le quote rosa vengono chiamate Frauenquote: il suono è magnifico perché alle orecchie di un italiano dà quel senso d'imperatività, inflessibilità e indocilità che sono le caratteristiche, per l'appunto, delle riserve indiane destinate alle signore.
Il dibattito de' noantri ha preso una piega piuttosto bizzarra: da una parte donne che disinteressatamente combattono per giusti diritti spalleggiate da maschi redenti e aperturisti che sì, certo, anche nelle loro aziende vorrebbero tanti consiglieri donna, salvo non averne finora messa nessuna o quasi.
In mezzo prudenti gradualisti che anche loro, per carità, son convinti che le Frauenquote siano wunderbar, ma implorano che almeno vengano introdotte lentamente e con sanzioni meno severe. Infine, uno stravagante gruppo di donne e uomini che dicono di no punto e basta, per motivi di libertà, dignità ed efficienza economica.
Proviamo a riassumerli? Le Frauenquote (anche nella versione temporanea proposta in Italia) sono un attentato alla libertà personale e d'impresa (e ledono il principio costituzionale di eguaglianza, ma non voglio farne una questione giuridica). Le aziende sono proprietà degli azionisti i quali scelgono per governarle chi pare a loro. Sono prigionieri di pregiudizi? Peccato: la performance delle loro società sarà peggiore delle altre. Non è questione di poco conto: la libertà viene intaccata poco per volta sempre per i più nobili motivi, finché, pezzetto per pezzetto, non ne rimane più.
Dignità. È l'argomento che viene sollevato più spesso dalle donne contrarie alle Frauenquote (mi ha divertito un articolo sui blog del Sole 24 Ore di Rosanna Santonocito che le ha paragonate alla legge Porcellum). L'essere delle raccomandate farà emergere una piccola casta di super-gettonate "gonne dorate" (come in Norvegia) o di parenti e amiche che avranno effetti devastanti verso le veramente brave: quando all'interno di un gruppo mi è difficile distinguere tra chi è capace e chi no, per andare sul sicuro considero tutti inaffidabili (George Akerlof ci ha vinto un Nobel applicando la teoria ai venditori di macchine usate). Accade anche per gli uomini, si ribatte. Quindi per rimediare a un male ne creiamo un altro?
Efficienza: qui le accademiche sfornano studi che dimostrano come team misti uomini e donne siano più produttivi di quelli a lugubre prevalenza maschile. A parte il fatto che per quel che riguarda la presenza nei consigli d'amministrazione le evidenze sono miste (si veda l'ottima rassegna della fondazione Friedrich Ebert, peraltro favorevole alle quote rosa), sfugge alle studiose che i risultati positivi sono frutto di una cooperazione volontaria. Ripeto: vo-lon-ta-ria. La quota imposta, come in Norvegia, non ha portato alcun beneficio alle società quotate: la performance della Borsa norvegese, nonostante gli ottimi fondamentali del paese, è di molto peggiore alla media. Non è capziosità: non dico che è colpa delle donne; certamente diventa difficile affermare che il loro ingresso forzato è automaticamente benefico. Gli studi, peraltro, mostrano inequivocabilmente che in Italia in tutti i posti di responsabilità (compresi amministratori delegati e direttori generali) le trenta-quarantenni sono presenti almeno tre volte di più delle ultra sessantenni: la società - strano eh? - si evolve, anche senza il Leviatano.
Infine l'ingestibilità: giustamente i benpensanti s'infuriano quando la Lega vuole quote di padani nella pubblica amministrazione o nell'assegnazione di case popolari. Eppure, credeteci o meno, anche loro si sentono discriminati. Così come pensano di esserlo (a volte a ragione) minoranze etniche (neri o asiatici o nordafricani o slavi), gay, lesbiche, transessuali, minoranze religiose (musulmani, buddisti, testimoni di Geova), obesi, nani, brutti eccetera. Cosa si fa, alle minoranze niente e alle donne che sono maggioranza la quota? E se un legislatore pazzo prescrivesse consigli-arlecchino (con situazioni assurde visto che in molti appartengono a varie categorie), questo aumenterebbe o diminuirebbe la ricchezza del paese e la possibilità di far fiorire il merito?
Il dibattito de' noantri ha preso una piega piuttosto bizzarra: da una parte donne che disinteressatamente combattono per giusti diritti spalleggiate da maschi redenti e aperturisti che sì, certo, anche nelle loro aziende vorrebbero tanti consiglieri donna, salvo non averne finora messa nessuna o quasi.
In mezzo prudenti gradualisti che anche loro, per carità, son convinti che le Frauenquote siano wunderbar, ma implorano che almeno vengano introdotte lentamente e con sanzioni meno severe. Infine, uno stravagante gruppo di donne e uomini che dicono di no punto e basta, per motivi di libertà, dignità ed efficienza economica.
Proviamo a riassumerli? Le Frauenquote (anche nella versione temporanea proposta in Italia) sono un attentato alla libertà personale e d'impresa (e ledono il principio costituzionale di eguaglianza, ma non voglio farne una questione giuridica). Le aziende sono proprietà degli azionisti i quali scelgono per governarle chi pare a loro. Sono prigionieri di pregiudizi? Peccato: la performance delle loro società sarà peggiore delle altre. Non è questione di poco conto: la libertà viene intaccata poco per volta sempre per i più nobili motivi, finché, pezzetto per pezzetto, non ne rimane più.
Dignità. È l'argomento che viene sollevato più spesso dalle donne contrarie alle Frauenquote (mi ha divertito un articolo sui blog del Sole 24 Ore di Rosanna Santonocito che le ha paragonate alla legge Porcellum). L'essere delle raccomandate farà emergere una piccola casta di super-gettonate "gonne dorate" (come in Norvegia) o di parenti e amiche che avranno effetti devastanti verso le veramente brave: quando all'interno di un gruppo mi è difficile distinguere tra chi è capace e chi no, per andare sul sicuro considero tutti inaffidabili (George Akerlof ci ha vinto un Nobel applicando la teoria ai venditori di macchine usate). Accade anche per gli uomini, si ribatte. Quindi per rimediare a un male ne creiamo un altro?
Efficienza: qui le accademiche sfornano studi che dimostrano come team misti uomini e donne siano più produttivi di quelli a lugubre prevalenza maschile. A parte il fatto che per quel che riguarda la presenza nei consigli d'amministrazione le evidenze sono miste (si veda l'ottima rassegna della fondazione Friedrich Ebert, peraltro favorevole alle quote rosa), sfugge alle studiose che i risultati positivi sono frutto di una cooperazione volontaria. Ripeto: vo-lon-ta-ria. La quota imposta, come in Norvegia, non ha portato alcun beneficio alle società quotate: la performance della Borsa norvegese, nonostante gli ottimi fondamentali del paese, è di molto peggiore alla media. Non è capziosità: non dico che è colpa delle donne; certamente diventa difficile affermare che il loro ingresso forzato è automaticamente benefico. Gli studi, peraltro, mostrano inequivocabilmente che in Italia in tutti i posti di responsabilità (compresi amministratori delegati e direttori generali) le trenta-quarantenni sono presenti almeno tre volte di più delle ultra sessantenni: la società - strano eh? - si evolve, anche senza il Leviatano.
Infine l'ingestibilità: giustamente i benpensanti s'infuriano quando la Lega vuole quote di padani nella pubblica amministrazione o nell'assegnazione di case popolari. Eppure, credeteci o meno, anche loro si sentono discriminati. Così come pensano di esserlo (a volte a ragione) minoranze etniche (neri o asiatici o nordafricani o slavi), gay, lesbiche, transessuali, minoranze religiose (musulmani, buddisti, testimoni di Geova), obesi, nani, brutti eccetera. Cosa si fa, alle minoranze niente e alle donne che sono maggioranza la quota? E se un legislatore pazzo prescrivesse consigli-arlecchino (con situazioni assurde visto che in molti appartengono a varie categorie), questo aumenterebbe o diminuirebbe la ricchezza del paese e la possibilità di far fiorire il merito?
«Il Sole 24 Ore» del 25 febbraio 2011
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