di Stefano Salis
La manifestazione in piazza non ci sarà, ma la data di beatificazione per David Foster Wallace – lo scrittore di culto (appunto), morto suicida nel settembre 2008 all'età di 46 anni – è fissata: aprile 2012. Quando apparirà, pubblicato dall'università dello Iowa, un volume dal titolo The Legacy of David Foster Wallace, che conterrà, in pratica, il dossier completo dei «miracoli letterari» dell'autore, compilato da una serie di studiosi che imprimeranno il sigillo dell'accademia e con contributi (utili per il lancio pubblicitario) di autori come Don De Lillo e Jonathan Franzen, l'ex rivale pronto a seppellire la penna di guerra. La procedura accelerata della canonizzazione americana di Foster Wallace era in verità iniziata in vita e proseguita subito dopo la morte, con sparuti saggi, uno dei quali, però, dal titolo rivelatosi profetico: Morte di un autore, nascita di un campo di studi.
E fa il paio con quella che da qualche anno (complice un'abile operazione dell'agente letterario Andrew Wylie) si sta verificando, sempre in America, del cileno Roberto Bolaño: lo scrittore (di livello) sulla cui grandezza, in questo momento storico, tutti sarebbero disposti a giurare, compresi quelli che non lo hanno mai preso in mano.
Ci sono buone probabilità che la loro luce, nel firmamento letterario, sia destinata a diventare quella di una meritata aureola, anche se, ed è capitato spesso, ciò che a prima vista sembra una stella fissa si riveli, a distanza di (poco) tempo, solo un fugace brillio di meteora. Certo, ai due scrittori in questione, giova il fatto di essere defunti: nel tritacarne della critica, l'autore morto ha l'indubbio vantaggio di non poter smentire con opere deboli l'apertura di credito concessa a inizio carriera.
I casi sono molti. E, senza entrare troppo nel merito della qualità, si può provare a nominarne alcuni. Per vedere l'effetto che fa.
Chi ricorda oggi, per esempio, Jay McInerney? Il suo Le mille luci di New York (1984) segnò una stagione, anche in Italia, di attenzione verso un certo tipo di narrativa. E ha dato origine, per dire, a uno scrittore che a McInerney deve molto, Bret Easton Ellis, ma che ora appare di gran lunga più significativo. O David Leavitt: dopo il Ballo di famiglia (1984) è finita la musica e gli amici se ne sono andati. E che dire di nomi e correnti che ai più giovani faranno alzare le spalle: Tama Janowitz, le pornografe alla Alina Reyes o Almudena Grandes, imprescindibili nelle conversazioni dell'epoca, oggi meritatamente dimenticate. E il realismo magico post-Márquez? I narratori della decadenza mitteleuropea?
E gli italiani, poi, i più vari. Boccalone di Enrico Palandri (toh, ritorna proprio in questi giorni da Bompiani): «il libro che ha aperto la strada alla letteratura degli anni Ottanta» come declamava Pier Vittorio Tondelli – la cui stessa presenza è sempre più fioca – e che occupò parecchio spazio nelle cronache culturali di allora. Non parliamo di successi editoriali di qualità fragile ma sostanziosa dal punto di vista delle vendite: chi si ricorda di Lara Cardella, quella che voleva i pantaloni, o della effimera bellezza della bruttina stagionata? E la stessa Elena Ferrante, la misteriosa autrice de L'amore molesto, rischia di passare ormai dallo pseudonimato all'anonimato. C'era una volta molta attenzione su Giampaolo Rugarli, il cui La troga (1988), accolto molto favorevolmente dai critici, è stato altrettanto presto dimenticato (peccato). Carlo Sgorlon, ambizioso e premiato Omero del Friuli, è oggi già molto marginale nel precario canone italiano. Cassola o Pratolini, chi li legge più? Su Antonio Moresco si sono alzati feroci polveroni critici nella generale indifferenza del pubblico e oggi sembra sempre più misteriosa la ragione di quei polveroni ...
Persino un "intoccabile" come Milan Kundera, noto in Italia (letto è altra cosa) per un titolo che fu tormentone di Roberto D'Agostino e finì in una canzone di Venditti, oggi sembra più appannato che mai. E giusto per restare in zona Adelphi: e la stagione in cui non si parlava altro che della Variante di Lüneburg di Paolo Maurensig? E il promettente esordio di Giuseppe Ferrandino di Pericle il nero? Per non parlare di Stefano D'Arrigo, il capostipite di tutte le meteore letterarie, atteso lungamente, per il suo estenuante non capolavoro, Horcynus Orca, oggi già con un piede fuori dall'Olimpo. Basta così, ma gli esempi potrebbero continuare.
In generale sono sufficienti venti anni perché un panorama letterario venga spazzato via e ciò che sembrava stabile nel giudizio critico si appanna, si offusca, perde d'importanza. Al contrario, ciò che sembrava dimenticato è pronto ogni tanto a rientrare nel circuito mediatico se qualche critico o editore "giusto" lo ripesca.
Eppure il meccanismo di santificazione di Foster Wallace introduce alcune novità. Lo scrittore, infatti, è arrivato all'attenzione dell'accademia sulla spinta certo del successo (e sempre più in futuro la quantità di copie vendute sarà indizio di qualità e forse di garanzia di durata: questo è un altro discorso ma il caso Eco docet), certo dell'amore dei fan, ma – e lo spiega bene un articolo del «Chronicle» sul caso – anche dei saggi, spesso molto profondi e accurati, scritti da suoi cultori e diffusi sul web. Dunque una canonizzazione dal basso. In qualche modo, cioè, è stato il "grande pubblico" a costringere l'accademia a prendersi cura di Foster Wallace. Ma ancora. L'accademia non garantisce da sola, comunque, l'accesso sicuro al Paradiso degli scrittori: il canone è sempre più mobile e aggiornato rapidamente. Pensate a quanti Nobel letterari oggi del tutto ignoti sono stati premiati a Stoccolma: Pontoppidan, Sillanpää... È perché gli studi hanno bisogno di tempo, di serietà, di metodo. Tutta roba che, invece, ha poco pregio nel mercato della cultura letteraria contemporanea.
Viviamo in un'epoca in cui non si concede il lusso del tempo a nessuno.
Agli autori vivi, come ai morti. La critica letteraria dei giornali (in Italia ci sono casi lampanti) ha introdotto tra i criteri di giudizio qualcosa tra il tifo calcistico e le classifiche dei dj. Spesso il critico è preoccupato più dello jus primae noctis sull'autore, scoprendolo e lanciandolo nell'agone dei media, che di inquadrarlo correttamente in un contesto. Tendenza che, per converso, ai critici più stagionati fa semplicemente dire che gli autori nuovi fanno tutti schifo in blocco. Nessuno ha tempo da perdere: santi subito o niente. Ecco le beatificazioni istantanee e addirittura preventive – puro marketing – ed ecco critici che mitizzano il proprio percorso di lettura: «ho letto io per primo il nuovo Kafka», e via ripetere il più spesso possibile l'operazione, immemori di ciò che si è detto di altri.
È questo il tema di fondo che incrocia alcuni saggi che si interrogano sui meccanismi di scelta del valore culturale usciti in questi giorni; quelli di Carla Benedetti, Alfonso Berardinelli, fino al più strano e visionario di tutti, lo zibaldone di pensieri di Michele Rak, più avanti di tutti i colleghi nell'individuare le dinamiche culturali e letterarie presenti e future. O si incrocia il più velocemente possibile il sentiero che porta alla notorietà, anche postuma, o si ristagna nel fiume dell'oblio, sperando di essere ripescati per assurgere (e mai per sempre) nel paradiso della gloria.
Infine, una sensazione. Quella di Foster Wallace sarà l'ultima delle beatificazioni letterarie di una volta. Ciò che nessuno vuole ammettere è invece sotto gli occhi di tutti: la catastrofe della scrittura lineare (la prosa come l'abbiamo vissuta finora) è qui. Ma non è un danno: la letteratura cambierà, è cambiata. E ciò apre nuovi orizzonti, richiederà nuovi autori, nuovi strumenti critici e, ovviamente, nuovi meccanismi di beatificazione. I nuovi lettori, abituati all'elettronica più che alla carta, quelli, invece, ci sono già. Non facciamo finta di non saperlo.
E fa il paio con quella che da qualche anno (complice un'abile operazione dell'agente letterario Andrew Wylie) si sta verificando, sempre in America, del cileno Roberto Bolaño: lo scrittore (di livello) sulla cui grandezza, in questo momento storico, tutti sarebbero disposti a giurare, compresi quelli che non lo hanno mai preso in mano.
Ci sono buone probabilità che la loro luce, nel firmamento letterario, sia destinata a diventare quella di una meritata aureola, anche se, ed è capitato spesso, ciò che a prima vista sembra una stella fissa si riveli, a distanza di (poco) tempo, solo un fugace brillio di meteora. Certo, ai due scrittori in questione, giova il fatto di essere defunti: nel tritacarne della critica, l'autore morto ha l'indubbio vantaggio di non poter smentire con opere deboli l'apertura di credito concessa a inizio carriera.
I casi sono molti. E, senza entrare troppo nel merito della qualità, si può provare a nominarne alcuni. Per vedere l'effetto che fa.
Chi ricorda oggi, per esempio, Jay McInerney? Il suo Le mille luci di New York (1984) segnò una stagione, anche in Italia, di attenzione verso un certo tipo di narrativa. E ha dato origine, per dire, a uno scrittore che a McInerney deve molto, Bret Easton Ellis, ma che ora appare di gran lunga più significativo. O David Leavitt: dopo il Ballo di famiglia (1984) è finita la musica e gli amici se ne sono andati. E che dire di nomi e correnti che ai più giovani faranno alzare le spalle: Tama Janowitz, le pornografe alla Alina Reyes o Almudena Grandes, imprescindibili nelle conversazioni dell'epoca, oggi meritatamente dimenticate. E il realismo magico post-Márquez? I narratori della decadenza mitteleuropea?
E gli italiani, poi, i più vari. Boccalone di Enrico Palandri (toh, ritorna proprio in questi giorni da Bompiani): «il libro che ha aperto la strada alla letteratura degli anni Ottanta» come declamava Pier Vittorio Tondelli – la cui stessa presenza è sempre più fioca – e che occupò parecchio spazio nelle cronache culturali di allora. Non parliamo di successi editoriali di qualità fragile ma sostanziosa dal punto di vista delle vendite: chi si ricorda di Lara Cardella, quella che voleva i pantaloni, o della effimera bellezza della bruttina stagionata? E la stessa Elena Ferrante, la misteriosa autrice de L'amore molesto, rischia di passare ormai dallo pseudonimato all'anonimato. C'era una volta molta attenzione su Giampaolo Rugarli, il cui La troga (1988), accolto molto favorevolmente dai critici, è stato altrettanto presto dimenticato (peccato). Carlo Sgorlon, ambizioso e premiato Omero del Friuli, è oggi già molto marginale nel precario canone italiano. Cassola o Pratolini, chi li legge più? Su Antonio Moresco si sono alzati feroci polveroni critici nella generale indifferenza del pubblico e oggi sembra sempre più misteriosa la ragione di quei polveroni ...
Persino un "intoccabile" come Milan Kundera, noto in Italia (letto è altra cosa) per un titolo che fu tormentone di Roberto D'Agostino e finì in una canzone di Venditti, oggi sembra più appannato che mai. E giusto per restare in zona Adelphi: e la stagione in cui non si parlava altro che della Variante di Lüneburg di Paolo Maurensig? E il promettente esordio di Giuseppe Ferrandino di Pericle il nero? Per non parlare di Stefano D'Arrigo, il capostipite di tutte le meteore letterarie, atteso lungamente, per il suo estenuante non capolavoro, Horcynus Orca, oggi già con un piede fuori dall'Olimpo. Basta così, ma gli esempi potrebbero continuare.
In generale sono sufficienti venti anni perché un panorama letterario venga spazzato via e ciò che sembrava stabile nel giudizio critico si appanna, si offusca, perde d'importanza. Al contrario, ciò che sembrava dimenticato è pronto ogni tanto a rientrare nel circuito mediatico se qualche critico o editore "giusto" lo ripesca.
Eppure il meccanismo di santificazione di Foster Wallace introduce alcune novità. Lo scrittore, infatti, è arrivato all'attenzione dell'accademia sulla spinta certo del successo (e sempre più in futuro la quantità di copie vendute sarà indizio di qualità e forse di garanzia di durata: questo è un altro discorso ma il caso Eco docet), certo dell'amore dei fan, ma – e lo spiega bene un articolo del «Chronicle» sul caso – anche dei saggi, spesso molto profondi e accurati, scritti da suoi cultori e diffusi sul web. Dunque una canonizzazione dal basso. In qualche modo, cioè, è stato il "grande pubblico" a costringere l'accademia a prendersi cura di Foster Wallace. Ma ancora. L'accademia non garantisce da sola, comunque, l'accesso sicuro al Paradiso degli scrittori: il canone è sempre più mobile e aggiornato rapidamente. Pensate a quanti Nobel letterari oggi del tutto ignoti sono stati premiati a Stoccolma: Pontoppidan, Sillanpää... È perché gli studi hanno bisogno di tempo, di serietà, di metodo. Tutta roba che, invece, ha poco pregio nel mercato della cultura letteraria contemporanea.
Viviamo in un'epoca in cui non si concede il lusso del tempo a nessuno.
Agli autori vivi, come ai morti. La critica letteraria dei giornali (in Italia ci sono casi lampanti) ha introdotto tra i criteri di giudizio qualcosa tra il tifo calcistico e le classifiche dei dj. Spesso il critico è preoccupato più dello jus primae noctis sull'autore, scoprendolo e lanciandolo nell'agone dei media, che di inquadrarlo correttamente in un contesto. Tendenza che, per converso, ai critici più stagionati fa semplicemente dire che gli autori nuovi fanno tutti schifo in blocco. Nessuno ha tempo da perdere: santi subito o niente. Ecco le beatificazioni istantanee e addirittura preventive – puro marketing – ed ecco critici che mitizzano il proprio percorso di lettura: «ho letto io per primo il nuovo Kafka», e via ripetere il più spesso possibile l'operazione, immemori di ciò che si è detto di altri.
È questo il tema di fondo che incrocia alcuni saggi che si interrogano sui meccanismi di scelta del valore culturale usciti in questi giorni; quelli di Carla Benedetti, Alfonso Berardinelli, fino al più strano e visionario di tutti, lo zibaldone di pensieri di Michele Rak, più avanti di tutti i colleghi nell'individuare le dinamiche culturali e letterarie presenti e future. O si incrocia il più velocemente possibile il sentiero che porta alla notorietà, anche postuma, o si ristagna nel fiume dell'oblio, sperando di essere ripescati per assurgere (e mai per sempre) nel paradiso della gloria.
Infine, una sensazione. Quella di Foster Wallace sarà l'ultima delle beatificazioni letterarie di una volta. Ciò che nessuno vuole ammettere è invece sotto gli occhi di tutti: la catastrofe della scrittura lineare (la prosa come l'abbiamo vissuta finora) è qui. Ma non è un danno: la letteratura cambierà, è cambiata. E ciò apre nuovi orizzonti, richiederà nuovi autori, nuovi strumenti critici e, ovviamente, nuovi meccanismi di beatificazione. I nuovi lettori, abituati all'elettronica più che alla carta, quelli, invece, ci sono già. Non facciamo finta di non saperlo.
«Il Sole 24 Ore» del 23 gennaio 2011
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