23 febbraio 2011

Il diritto più prezioso

Aspre e insensate polemiche sul fine vita
di Francesco D'Agostino
Si sta avvicinando il giorno in cui a Montecito­rio si discuterà il disegno di legge sul 'fine vi­ta'. Il tema è giuridicamente complesso ed emo­tivamente coinvolgente. Dovrebbe essere affron­tato con pacatezza di ragionamento, sobrietà les­sicale, assenza di pregiudizi, rinuncia all’uso di to­ni superfluamente emotivi, rispetto nei confronti opinioni diverse dalle proprie. Purtroppo, alzando continuamente la voce, alcuni intellettuali di area libertaria stanno raccogliendo firme di adesione ad un appello esasperato, che definisce il testo che viene portato all’attenzione dei deputati inganne­vole, ideologico, autoritario, anticostituzionale e, più nel dettaglio, declamatorio, superfluo, men­zognero... se esso venisse approvato, dicono i suoi critici, «ciascuno di noi perderebbe il diritto fon­damentale ad autodeterminarsi, verrebbe espro­priato del potere di governare liberamente la pro­pria vita». Non è affatto così. Il disegno di legge cer­ca di trovare una saggia e difficile mediazione tra la tutela della vita, soprattutto quella dei malati terminali, considerata comunque un bene indi­sponibile, e il diritto di ogni persona a non essere sottoposta ad alcuna forma di accanimento tera­peutico e soprattutto a quelle che essa consape­volmente rifiuti. Non voglio entrare, in questa sede, in questioni di dettaglio. Il progetto di legge sul fine vita è stato fa­ticosamente elaborato (anche a partire da un do­cumento del Comitato nazionale per la Bioetica, che aveva riscosso a suo tempo significativi con­sensi bipartisan tra i cattolici come tra i laici), è sta­to rivisto, emendato, rielaborato, corretto: è evi­dente che esso è ancora migliorabile, come qual­siasi testo normativo e può ben darsi che continui a contenere norme inappropriate e forse impreci­se o ambigue che meriterebbero di essere ulte­riormente corrette. La vera posta in gioco, però, non è come migliorare questo testo. Quello che è in gioco è un braccio di ferro bioetico tra 'illumi­nisti' e 'realisti'. Gli 'illuministi' vedono la fine della vita umana posta sotto il segno di un’auto­determinazione lucida, serena, forte, coraggiosa, direi quasi 'giovanile' e chiedono, in nome del ri­spetto per i diritti della persona, che la legge ob­blighi comunque i medici a rispettare l’autodeter­minazione dei malati (indipendentemente dal fat­to che possano essere o no malati terminali). I 'rea­listi' non negano, ovviamente, che l’autodetermi­nazione possa aver davvero rilievo in alcuni, rari casi, ma sono ben più attenti al dato di realtà, per il quale nella maggior parte dei casi la morte è e­vento senile, che si caratterizza per la fragilità, la debolezza, lo stato di paura e di assoluta dipen­denza del morente. L’appello all’autodetermina­zione, per i realisti, meriterebbe attenzione se non aprisse un varco inaccettabile all’abbandono te­rapeutico. I fautori della difesa ad oltranza dei di­ritti della persona non si rendono conto del fatto che, in buona sostanza, ne mettono a rischio il di­ritto più prezioso, quello alla vita. In questo consi­ste il loro (ingenuo?) 'illuminismo'.
Per convincersi di quanto sia concreto questo ri­schio basterebbe frequentare le corsie degli ospe­dali (l’hanno mai fatto i firmatari dell’appello sul­l’autodeterminazione?), in particolare di quelli che accolgono i malati terminali, i malati soli, gli ' ol­dest old'. I morenti, gli anziani, gli abbandonati non sono illuministi; quello che davvero vogliono non è che si renda ossequio alla loro volontà, il più delle volte incerta, mutevole, dubbiosa; semplice­mente non vogliono essere lasciati soli, vogliono essere 'curati', cioè che ci si prenda cura di loro. Indurre i medici ad abbreviare la vita degli anzia­ni, dei lungodegenti, dei malati terminali, vinco­landoli a 'rispettarne' lamenti, recriminazioni, ri­chieste fatte in tempi lontani, esasperate da stati emotivi e carenti di adeguata informazione è un ri­schio che non possiamo correre e contro il quale il disegno di legge sul fine vita prende fermamen­te posizione, il che basta a renderlo apprezzabile. Qui non è in gioco una visione religiosa o una vi­sione laica della vita e della persona, ma, né più né meno, che la difesa dell’etica medica ippocratica, quella che, già secoli e secoli prima di Cri­sto, imponeva al medico di por­si sempre al servizio, e contem­poraneamente, sia della perso­na che della vita.
«Avvenire» del 22 febbraio 2011

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