L'allergia al leader del Pd
di Ernesto Galli della Loggia
L’Italia è il Paese in cui alla vigilia di ormai più che probabili elezioni politiche l’opposizione è ancora priva di un leader da contrapporre al leader dello schieramento avversario, cioè a Silvio Berlusconi. Ciò riguarda tanto l’opposizione di sinistra che quella di centro: ma per ragioni solo in parte eguali. Il problema comune è che entrambe le opposizioni hanno una composizione eterogenea, ognuna essendo formata di tre, quattro, o anche più formazioni diverse, le quali devono trovare un accordo su chi le rappresenti nella competizione elettorale: una decisione, come si capisce, tutt’altro che facile.
Ma se questo è il problema comune sia al centro che alla sinistra, la sinistra ne ha uno in più. E cioè che qui è lo stesso partito di gran lunga più importante dello schieramento, il Partito democratico, che non ha un vero leader, non ha un capo. Per capo intendo una persona in grado di prendere decisioni vincolanti per tutti perché titolare di un consenso non da contrattare ogni volta con una continua ricerca di compromessi. Intendo insomma esattamente ciò che il povero Bersani non è. Ma Bersani non ha colpa. Il Pd manca di una simile figura da sempre: ed è questa una tra le non ultime ragioni per cui è un partito zoppo, sempre incerto nelle sue mosse, insicuro e poco affidabile all’esterno in quanto incapace di parlare con una voce sola.
Sono tre i principali motivi di questa specie di destino maligno.
Il primo è che innanzitutto nella cultura, nel modo di sentire del popolo del Pd si avverte una diffidenza profonda per l’idea stessa che un capo sia necessario. L’evoluzione ideologica dell’elettorato di sinistra successiva alla fine del comunismo ha voluto perlopiù dire, infatti, l’approdo a un democraticismo antigerarchico che è portato a vedere in ogni esercizio d’autorità un più o meno larvato sopruso. Dalla reverenza verso il capo indiscusso designato dal Partito con la P maiuscola a decidere di tutto (Togliatti, Berlinguer) si è passati all’idea opposta che di tutto possano e debbano decidere tutti (e chi non è d’accordo ha diritto di fare per conto suo come se nulla fosse). Alla speranza nella storia essendo subentrata con pari forza, dopo «Mani pulite », l’idolatria per i codici, tutto il senso comune della sinistra si è impregnato di regolamentarismo, di astrattezza, di sospetto per qualsiasi contenuto o potere legato alla persona. L’odio per Berlusconi ha fatto il resto, colorando di una luce d’arbitrio ogni realtà di leadership. Il risultato è stato una vera e propria automutilazione che la sinistra si è masochisticamente inferta, disconoscendo la funzione essenziale che nella politica ha sempre avuto l’esistenza di un capo.
Il quale capo, peraltro, non emerge nelle file del Pd anche per un secondo motivo: perché esso manca da tempo di un vero programma, di punti concreti sui quali definire la propria identità, di proposte con cui presentarsi all’elettorato. Sicché di fatto l’unica cosa su cui nel Pd c’è una parvenza di dibattito (per modo di dire: in realtà, infatti, non vi sono sedi effettive di discussione interna; tutto, anche in questo caso, si riduce a interviste e dichiarazioni ai giornali) è solo la tattica da adottare per far fuori Berlusconi e sugli eventuali alleati ai quali ricorrere.
Contenitore di molte prospettive ideali anche assai diverse tra di loro, il Pd non riesce in realtà a discutere di niente per paura di non trovarsi d’accordo su nulla. Ma proprio questa latitanza di concretezza programmatica e insieme di dibattito implica inevitabilmente l’assenza di vera lotta politica all’interno del partito, l’assenza di prese di posizioni che impegnino realmente chi le prende, l’impossibilità, infine, che si formino vere maggioranze intorno a un programma e intorno a una persona. E dunque l’impossibilità che nasca un vero leader. Al suo posto, invece, l’affollarsi di un’oligarchia sganciata da ogni responsabilità, immutabile, dove si entra solo e non si esce mai, dove tutti, a turno, prendono tutte le posizioni o quasi, madre di un sostanziale immobilismo punteggiato da continui compromessi.
Un meccanismo del genere non è certo fatto per consentire di prevalere a chi abbia voglia e capacità. È piuttosto il vivaio inevitabile della mediocrità. Dato questo modello ormai consolidato è comprensibile, infatti, che nessuno che pure eventualmente ne avesse qualche vago desiderio abbia poi voglia di giocarsi ciò che ha già, contrapponendosi al sistema e così rischiando di restare isolato perdendo tutto. In un partito dove non c’è vero dibattito politico, dove non c’è lotta politica su proposte concrete e contrapposte, che non ha alcuna identità programmatica, nessuno, comprensibilmente, se la sente di scommettere sulla bontà delle proprie idee. Nessuno se la sente di puntare sul fatto che il futuro gli darà ragione, e dunque di accettare di restare in minoranza oggi perché domani saranno i fatti a dargli la leadership. Nel Pd, insomma, è la stessa strada che conduce alla nascita di veri capi politici che risulta impraticabile, se non addirittura inesistente.
Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi da anni. Ad una patologica iperpresenza di superleadership a destra, a sinistra corrisponde un’altrettanto patologico vuoto di leadership. Anche di ciò si nutre voracemente l’anomalia italiana: quell’anomalia che ci sta conducendo alla rovina.
Ma se questo è il problema comune sia al centro che alla sinistra, la sinistra ne ha uno in più. E cioè che qui è lo stesso partito di gran lunga più importante dello schieramento, il Partito democratico, che non ha un vero leader, non ha un capo. Per capo intendo una persona in grado di prendere decisioni vincolanti per tutti perché titolare di un consenso non da contrattare ogni volta con una continua ricerca di compromessi. Intendo insomma esattamente ciò che il povero Bersani non è. Ma Bersani non ha colpa. Il Pd manca di una simile figura da sempre: ed è questa una tra le non ultime ragioni per cui è un partito zoppo, sempre incerto nelle sue mosse, insicuro e poco affidabile all’esterno in quanto incapace di parlare con una voce sola.
Sono tre i principali motivi di questa specie di destino maligno.
Il primo è che innanzitutto nella cultura, nel modo di sentire del popolo del Pd si avverte una diffidenza profonda per l’idea stessa che un capo sia necessario. L’evoluzione ideologica dell’elettorato di sinistra successiva alla fine del comunismo ha voluto perlopiù dire, infatti, l’approdo a un democraticismo antigerarchico che è portato a vedere in ogni esercizio d’autorità un più o meno larvato sopruso. Dalla reverenza verso il capo indiscusso designato dal Partito con la P maiuscola a decidere di tutto (Togliatti, Berlinguer) si è passati all’idea opposta che di tutto possano e debbano decidere tutti (e chi non è d’accordo ha diritto di fare per conto suo come se nulla fosse). Alla speranza nella storia essendo subentrata con pari forza, dopo «Mani pulite », l’idolatria per i codici, tutto il senso comune della sinistra si è impregnato di regolamentarismo, di astrattezza, di sospetto per qualsiasi contenuto o potere legato alla persona. L’odio per Berlusconi ha fatto il resto, colorando di una luce d’arbitrio ogni realtà di leadership. Il risultato è stato una vera e propria automutilazione che la sinistra si è masochisticamente inferta, disconoscendo la funzione essenziale che nella politica ha sempre avuto l’esistenza di un capo.
Il quale capo, peraltro, non emerge nelle file del Pd anche per un secondo motivo: perché esso manca da tempo di un vero programma, di punti concreti sui quali definire la propria identità, di proposte con cui presentarsi all’elettorato. Sicché di fatto l’unica cosa su cui nel Pd c’è una parvenza di dibattito (per modo di dire: in realtà, infatti, non vi sono sedi effettive di discussione interna; tutto, anche in questo caso, si riduce a interviste e dichiarazioni ai giornali) è solo la tattica da adottare per far fuori Berlusconi e sugli eventuali alleati ai quali ricorrere.
Contenitore di molte prospettive ideali anche assai diverse tra di loro, il Pd non riesce in realtà a discutere di niente per paura di non trovarsi d’accordo su nulla. Ma proprio questa latitanza di concretezza programmatica e insieme di dibattito implica inevitabilmente l’assenza di vera lotta politica all’interno del partito, l’assenza di prese di posizioni che impegnino realmente chi le prende, l’impossibilità, infine, che si formino vere maggioranze intorno a un programma e intorno a una persona. E dunque l’impossibilità che nasca un vero leader. Al suo posto, invece, l’affollarsi di un’oligarchia sganciata da ogni responsabilità, immutabile, dove si entra solo e non si esce mai, dove tutti, a turno, prendono tutte le posizioni o quasi, madre di un sostanziale immobilismo punteggiato da continui compromessi.
Un meccanismo del genere non è certo fatto per consentire di prevalere a chi abbia voglia e capacità. È piuttosto il vivaio inevitabile della mediocrità. Dato questo modello ormai consolidato è comprensibile, infatti, che nessuno che pure eventualmente ne avesse qualche vago desiderio abbia poi voglia di giocarsi ciò che ha già, contrapponendosi al sistema e così rischiando di restare isolato perdendo tutto. In un partito dove non c’è vero dibattito politico, dove non c’è lotta politica su proposte concrete e contrapposte, che non ha alcuna identità programmatica, nessuno, comprensibilmente, se la sente di scommettere sulla bontà delle proprie idee. Nessuno se la sente di puntare sul fatto che il futuro gli darà ragione, e dunque di accettare di restare in minoranza oggi perché domani saranno i fatti a dargli la leadership. Nel Pd, insomma, è la stessa strada che conduce alla nascita di veri capi politici che risulta impraticabile, se non addirittura inesistente.
Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi da anni. Ad una patologica iperpresenza di superleadership a destra, a sinistra corrisponde un’altrettanto patologico vuoto di leadership. Anche di ciò si nutre voracemente l’anomalia italiana: quell’anomalia che ci sta conducendo alla rovina.
«Corriere della Sera» del 2 febbraio 2011
Nessun commento:
Posta un commento