L'etica pubblica pretende «verità»
di Francesco D'Agostino
Le furiose polemiche sul capo del governo che stanno avvelenando l’Italia dimostrano chiaramente quanto sia fragile il paradigma del liberalismo etico (non di quello politico, che ha ben altra consistenza) che è dilagato nel nostro Paese negli ultimi anni. Nella sua formulazione più radicale (condivisa – ahimè! – anche da alcuni politici cattolici) il liberalismo potrebbe essere riassunto nella drastica distinzione tra 'peccati' e 'reati'. I primi dovrebbero essere ritenuti da tutti (o almeno da tutti i veri liberali) pubblicamente irrilevanti, almeno in una società pluralista che non solo riconosce, ma si compiace della irriducibile molteplicità e diversità dei singoli stili di vita e vuole tutti rispettarli. Altro discorso quello avente per oggetto i 'reati', atti da valutare, indipendentemente dalla moralità privata di chi li commette, come socialmente inaccettabili e meritevoli quindi di essere severamente puniti. Ebbene è rimarchevole come questo paradigma non abbia retto alla prova dal 'caso Berlusconi' e sia stato drasticamente messo da parte dai tantissimi che l’hanno per anni e anni verbosamente esaltato (al punto che i pochi che oggi continuano a difenderlo riconoscono di non essere più di quattro gatti).
La distinzione che oggi va di moda fare non è più quella tra 'reati' e 'peccati', ma tra le azioni criminali (i 'reati'), le azioni che vanno contro la moralità privata (i 'peccati') e le azioni che vanno contro l’etica pubblica. Per chi assume questa posizione, costituisce un’indubbia difficoltà il fatto che manchi la parola adatta a designare questo tertium genus: violare l’etica pubblica non è propriamente un 'peccato' e non è nemmeno un 'reato': è però qualcosa di tanto grave, da giustificare la richiesta dell’uscita dalla scena politica di chi se ne renda responsabile. Ma chi sarà chiamato ad accertare questa responsabilità, se si rinuncia a ogni riferimento al codice penale e ai precetti etici consolidati?
C’è un rischio che non va minimizzato: quello che il giudizio sull’etica pubblica vada in definitiva affidato alla 'sensibilità' personale e sia di fatto ridotto a questione di mera immagine o in definitiva di 'buon gusto'. È indubbio che la sensibilità abbia il legittimo peso, ma è un peso che rileva, in un’epoca mediatica come la nostra, solo a livello di immagine (come sanno benissimo i politici, che conquistano voti anche e forse soprattutto attraverso la 'faccia' che esibiscono in televisione). Ma se si vuole dar credito all’etica pubblica, come all’unica etica condivisibile nelle società pluraliste, bisogna fondarla oggettivamente, perché sobrietà, onestà, decoro, correttezza, senso dello Stato, interesse prioritario per il bene pubblico, o – in una parola sola – esemplarità di vita, non possono ridursi ad atteggiamenti psicologici o essere elaborati come valori ideologici: essi devono possedere una loro 'verità'.
Verità: e qui la parola temutissima dal liberalismo etico torna prepotentemente in primo piano. Solo chi sia convinto che l’etica pubblica sia un’etica 'vera' può invocarne il rispetto. Altrimenti questa invocazione si trasforma in una mossa occasionale, di carattere propagandistico-politico, che non merita altro se non corrispondenti contromosse, altrettanto occasionali e propagandistiche.
Ecco perché l’appello all’etica pubblica non ci salverà, se non sarà radicato in una severa presa di coscienza dei guasti che il relativismo etico libertario ha prodotto nel nostro Paese: guasti che sono stati sintetizzati nella durissima espressione «disastro antropologico », usata dal cardinal Bagnasco e ripresa da monsignor Crociata per descrivere il momento presente che vive l’Italia. Non abbiamo solo il compito di bonificare la nostra classe politica, ricordandole i principi non negoziabili dell’etica pubblica, abbiamo soprattutto il compito di rammentare a tutti, a partire dalle scuole, che il bene non coincide con i nostri desideri, ma possiede una sua dura oggettività. L’esaltazione dell’etica senza verità indebolisce le coscienze e si è rivelata indifendibile. Prendiamone definitivamente atto con un lodevole sforzo di onestà intellettuale: nella crisi che stiamo soffrendo, questo è l’unico, ragionevole e nuovo punto di partenza che possiamo prefiggerci.
La distinzione che oggi va di moda fare non è più quella tra 'reati' e 'peccati', ma tra le azioni criminali (i 'reati'), le azioni che vanno contro la moralità privata (i 'peccati') e le azioni che vanno contro l’etica pubblica. Per chi assume questa posizione, costituisce un’indubbia difficoltà il fatto che manchi la parola adatta a designare questo tertium genus: violare l’etica pubblica non è propriamente un 'peccato' e non è nemmeno un 'reato': è però qualcosa di tanto grave, da giustificare la richiesta dell’uscita dalla scena politica di chi se ne renda responsabile. Ma chi sarà chiamato ad accertare questa responsabilità, se si rinuncia a ogni riferimento al codice penale e ai precetti etici consolidati?
C’è un rischio che non va minimizzato: quello che il giudizio sull’etica pubblica vada in definitiva affidato alla 'sensibilità' personale e sia di fatto ridotto a questione di mera immagine o in definitiva di 'buon gusto'. È indubbio che la sensibilità abbia il legittimo peso, ma è un peso che rileva, in un’epoca mediatica come la nostra, solo a livello di immagine (come sanno benissimo i politici, che conquistano voti anche e forse soprattutto attraverso la 'faccia' che esibiscono in televisione). Ma se si vuole dar credito all’etica pubblica, come all’unica etica condivisibile nelle società pluraliste, bisogna fondarla oggettivamente, perché sobrietà, onestà, decoro, correttezza, senso dello Stato, interesse prioritario per il bene pubblico, o – in una parola sola – esemplarità di vita, non possono ridursi ad atteggiamenti psicologici o essere elaborati come valori ideologici: essi devono possedere una loro 'verità'.
Verità: e qui la parola temutissima dal liberalismo etico torna prepotentemente in primo piano. Solo chi sia convinto che l’etica pubblica sia un’etica 'vera' può invocarne il rispetto. Altrimenti questa invocazione si trasforma in una mossa occasionale, di carattere propagandistico-politico, che non merita altro se non corrispondenti contromosse, altrettanto occasionali e propagandistiche.
Ecco perché l’appello all’etica pubblica non ci salverà, se non sarà radicato in una severa presa di coscienza dei guasti che il relativismo etico libertario ha prodotto nel nostro Paese: guasti che sono stati sintetizzati nella durissima espressione «disastro antropologico », usata dal cardinal Bagnasco e ripresa da monsignor Crociata per descrivere il momento presente che vive l’Italia. Non abbiamo solo il compito di bonificare la nostra classe politica, ricordandole i principi non negoziabili dell’etica pubblica, abbiamo soprattutto il compito di rammentare a tutti, a partire dalle scuole, che il bene non coincide con i nostri desideri, ma possiede una sua dura oggettività. L’esaltazione dell’etica senza verità indebolisce le coscienze e si è rivelata indifendibile. Prendiamone definitivamente atto con un lodevole sforzo di onestà intellettuale: nella crisi che stiamo soffrendo, questo è l’unico, ragionevole e nuovo punto di partenza che possiamo prefiggerci.
«Avvenire» del 17 febbraio 2011
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