di Paolo Simoncelli
Si annuncia una settimana piena di ricordi concomitanti; ricordi tragici che le relative rievocazioni potrebbero aiutare a riconsiderare storicamente se solo avessero il coraggio di forare la robusta barriera della banalità rituale. Oggi a Porzus, e giovedì 10 al Quirinale, si ricorderanno rispettivamente la strage operata dai partigiani comunisti dal 7 al 20 febbraio 1945 dei partigiani cattolici della «Osoppo», rei di opporsi al progetto annessionistico titino di portare il confine slavo al Tagliamento; e il «Giorno del ricordo»: la firma italiana, il 10 febbraio 1947, del trattato di pace che assegnava alla Jugoslavia le antiche terre italiane dell’Istria e della Dalmazia, lasciando in sospeso la sorte della stessa Trieste e consentendo implicitamente la perpetrazione di violenze e assassinii: 350 mila italiani dovettero allora lasciare quelle terre per essere male accolti da una matrigna Italia.
Ma, da allora, tragicamente infoibata fu soprattutto la nostra memoria storica, non più riemersa da quella voragine. Si è appena «celebrato» il 35° dalla firma degli accordi di Osimo (10 novembre 1975) che assegnarono alla Jugoslavia la sovranità territoriale della "zona B" (il territorio a sud di Trieste fino ad allora amministrato dalla Jugoslavia) in cambio di un pacco di documenti inerti. Un anniversario in sordina proprio mentre nuove fonti ex jugoslave e autorevoli posizioni politiche, come quelle dell’attuale presidente sloveno Turk, apportano ulteriori conoscenze e considerazioni.
Una sordina (violata appena da quotidiani locali) che tranquillizza, rassicura, conforta. Ineffabile la paura che abbiamo della nostra storia e ancor più della sua trasmissione; da cui la necessità di controllarne i canali. Non egemonia ideologica in senso lato (cattedre, manuali, riviste, convegni), ma semplici riferimenti fisici, visivi: lapidi, targhe, monumenti…, lacerti materiali di memoria da inquinare, distorcere. A Porzus, luogo d’inizio della mattanza dei partigiani della Osoppo e poi, al Bosco Romagno, dei prigionieri che non vollero «convertirsi» e passare coi comunisti, una prima lapide ricordava i caduti «soffocati nel sangue da fraterna mano assassina». Una seconda, successiva, ammonisce cripticamente «che vanno rispettati in ogni comunità di qualunque popolo e la patria e la nazionalità».
Paola Del Din – medaglia d’oro della Resistenza e presidente dell’Associazione Osoppo dal 1989 al ’92 – ricorda che questa lapide avrebbe voluto inaugurarla il presidente della Repubblica Cossiga; ma che, per cause imprecisate, allora (febbraio 1992) non poté farlo ufficialmente; poté andarvi solo privatamente due settimane dopo. Figurarsi i funambolismi e le contorsioni della motivazione della medaglia d’oro concessa nel 1954 all’eroico comandante della Osoppo, Francesco De Gregori, primo ad essere seviziato e ammazzato a Porzus: combattente «in quel martoriato lembo d’Italia dove il comune spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un sol blocco le forze della Resistenza». Paura di dire da chi e perché quei partigiani erano stati ammazzati giorno per giorno a piccoli gruppi.
E ci si stupisce oggi che quel luogo, quelle malghe, attendano ancora il riconoscimento giuridico e morale di «monumento nazionale»? Trent’anni dopo Porzus, a Osimo, Italia e Jugoslavia chiudono il contenzioso. Si è mai voluto leggere il ricordo dell’allora ambasciatore italiano a Belgrado, Giuseppe Walter Maccotta? Scavalcato, lasciato senza informazioni, tra ministri degli Esteri e capi di governo che si succedevano a Roma dimenticando di trasmettersi appunti e notizie sulle trattative in corso. Una farsa di cui oggi, di fronte alle testimonianze jugoslave, si può cogliere lo spessore grottesco: a trattare segretamente furono Eugenio Carbone, direttore generale del ministero dell’Industria (il cui nome compare tra gli affiliati alla P2), e l’economista jugoslavo Boris Snuderl (che in una recente intervista al Dnevnik di Lubiana ha reso noti retroscena e contenuti).
Nel frattempo il presidente sloveno Turk, dopo aver partecipato alla controversa e complicatissima cerimonia del 13 luglio scorso a Trieste, col presidente italiano Napolitano e croato Josipovic (tra omaggio al Narodni Dom e non alla foiba di Basovizza ma alla "targhetta" all’esodo apposta su una ex cabina elettrica), ha rievocato a Lubiana il 6 dicembre 2010 il trattato di Osimo; parole ovviamente caute, distensive; magari storicamente discutibili come l’attribuzione all’Italia, nella prima guerra mondiale, del «più brutale tentativo di spostare il confine a est». Vedremo il seguito fra l’obbligo politicamente imposto dell’ottimismo e il pessimismo della ragione, che induce a scommettere sull’opportunismo ciarliero ed elegante del cerchiobottismo; sulla signorilità di non dire d’esser vittime; sull’obbligo farisaico-diplomatico di annebbiare. Recidere insomma la memoria; sociologizzare un’Europa ricca di tecnica e sempre priva d’anima; ma soprattutto «celebrare»: alimentare la liturgia del rito astraendo dalla fede. Tra la felicità e la conoscenza, guai a far la scelta sbagliata.
Ma, da allora, tragicamente infoibata fu soprattutto la nostra memoria storica, non più riemersa da quella voragine. Si è appena «celebrato» il 35° dalla firma degli accordi di Osimo (10 novembre 1975) che assegnarono alla Jugoslavia la sovranità territoriale della "zona B" (il territorio a sud di Trieste fino ad allora amministrato dalla Jugoslavia) in cambio di un pacco di documenti inerti. Un anniversario in sordina proprio mentre nuove fonti ex jugoslave e autorevoli posizioni politiche, come quelle dell’attuale presidente sloveno Turk, apportano ulteriori conoscenze e considerazioni.
Una sordina (violata appena da quotidiani locali) che tranquillizza, rassicura, conforta. Ineffabile la paura che abbiamo della nostra storia e ancor più della sua trasmissione; da cui la necessità di controllarne i canali. Non egemonia ideologica in senso lato (cattedre, manuali, riviste, convegni), ma semplici riferimenti fisici, visivi: lapidi, targhe, monumenti…, lacerti materiali di memoria da inquinare, distorcere. A Porzus, luogo d’inizio della mattanza dei partigiani della Osoppo e poi, al Bosco Romagno, dei prigionieri che non vollero «convertirsi» e passare coi comunisti, una prima lapide ricordava i caduti «soffocati nel sangue da fraterna mano assassina». Una seconda, successiva, ammonisce cripticamente «che vanno rispettati in ogni comunità di qualunque popolo e la patria e la nazionalità».
Paola Del Din – medaglia d’oro della Resistenza e presidente dell’Associazione Osoppo dal 1989 al ’92 – ricorda che questa lapide avrebbe voluto inaugurarla il presidente della Repubblica Cossiga; ma che, per cause imprecisate, allora (febbraio 1992) non poté farlo ufficialmente; poté andarvi solo privatamente due settimane dopo. Figurarsi i funambolismi e le contorsioni della motivazione della medaglia d’oro concessa nel 1954 all’eroico comandante della Osoppo, Francesco De Gregori, primo ad essere seviziato e ammazzato a Porzus: combattente «in quel martoriato lembo d’Italia dove il comune spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un sol blocco le forze della Resistenza». Paura di dire da chi e perché quei partigiani erano stati ammazzati giorno per giorno a piccoli gruppi.
E ci si stupisce oggi che quel luogo, quelle malghe, attendano ancora il riconoscimento giuridico e morale di «monumento nazionale»? Trent’anni dopo Porzus, a Osimo, Italia e Jugoslavia chiudono il contenzioso. Si è mai voluto leggere il ricordo dell’allora ambasciatore italiano a Belgrado, Giuseppe Walter Maccotta? Scavalcato, lasciato senza informazioni, tra ministri degli Esteri e capi di governo che si succedevano a Roma dimenticando di trasmettersi appunti e notizie sulle trattative in corso. Una farsa di cui oggi, di fronte alle testimonianze jugoslave, si può cogliere lo spessore grottesco: a trattare segretamente furono Eugenio Carbone, direttore generale del ministero dell’Industria (il cui nome compare tra gli affiliati alla P2), e l’economista jugoslavo Boris Snuderl (che in una recente intervista al Dnevnik di Lubiana ha reso noti retroscena e contenuti).
Nel frattempo il presidente sloveno Turk, dopo aver partecipato alla controversa e complicatissima cerimonia del 13 luglio scorso a Trieste, col presidente italiano Napolitano e croato Josipovic (tra omaggio al Narodni Dom e non alla foiba di Basovizza ma alla "targhetta" all’esodo apposta su una ex cabina elettrica), ha rievocato a Lubiana il 6 dicembre 2010 il trattato di Osimo; parole ovviamente caute, distensive; magari storicamente discutibili come l’attribuzione all’Italia, nella prima guerra mondiale, del «più brutale tentativo di spostare il confine a est». Vedremo il seguito fra l’obbligo politicamente imposto dell’ottimismo e il pessimismo della ragione, che induce a scommettere sull’opportunismo ciarliero ed elegante del cerchiobottismo; sulla signorilità di non dire d’esser vittime; sull’obbligo farisaico-diplomatico di annebbiare. Recidere insomma la memoria; sociologizzare un’Europa ricca di tecnica e sempre priva d’anima; ma soprattutto «celebrare»: alimentare la liturgia del rito astraendo dalla fede. Tra la felicità e la conoscenza, guai a far la scelta sbagliata.
«Avvenire» del 6 febbraio 2011
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