In un saggio lo storico inglese Eric Hobsbawm afferma che la fine dell’ortodossia comunista in Urss ha "liberato" il pensiero del filosofo di Treviri. Del resto in "Il secolo breve" aveva scritto che quel regime non era totalitario ...
di Giampietro Berti
Ancora Marx? Sembrerebbe di sì, stando alle affermazioni del marxista Eric Hobsbawm nel suo nuovo libro How to Change the World: Tales of Marx and Marxism (Brown, 2011). In un’intervista rilasciata a Gabriele Pantucci, pubblicata sulla Repubblica del 28 gennaio, lo storico inglese dice: «la fine del marxismo ufficiale dell’Unione Sovietica ha liberato Marx dall’identificazione con il leninismo e con i regimi leninisti. In questo modo è stato possibile recuperare il suo pensiero e quel che aveva da dire riguardo al mondo».
Dunque il fallimento del socialismo reale dimostrerebbe l’attualità dello stesso Marx, attualità che consisterebbe nel fatto che la catastrofe del comunismo è coincisa con la vittoria del capitalismo. Si tratta di un apparente paradosso, dato che Marx non c’entra nulla con il socialismo reale; anzi proprio il fallimento dei regimi leninisti dimostrerebbe l’attualità del pensatore di Treviri, un’attualità che consisterebbe nel fatto di aver profetizzato, nel Manifesto, l’economia globale. Non a caso, aggiunge Hobsbawm, sono stati «i capitalisti (come ad esempio Soros) e non i socialisti a riscoprire (Marx)». Infine la vittoria della globalizzazione dimostra la sua attualità. Par di sognare, ma è quanto abbiamo letto.
Effettivamente Marx nel Manifesto anticipa l’esito globale del capitalismo. Hobsbawm però dimentica le altre previsioni fatte dall’autore del Capitale. Cioè le previsioni e le teorie che davano per certa la sconfitta del capitalismo e la vittoria della rivoluzione proletaria; previsioni e teorie smentite dalla storia. È avvenuto infatti il contrario di quanto profetizzato dal pensatore di Treviri e dai suoi seguaci, perché non abbiamo assistito alla fine del capitalismo e all’avvento del comunismo, ma al suo contrario: alla sconfitta del comunismo e alla vittoria del capitalismo. Marx è stato smentito dai fatti, poiché non vi è stata la proletarizzazione crescente nelle società capitalistiche e, tanto meno, nessuno scontro finale tra la società impoverita dal capitalismo e il potere economico ridotto in poche mani. Nei Paesi capitalisti avanzati la rivoluzione sociale, quale esito della proletarizzazione generale, è rimasta un sogno senza alcuna prospettiva pratica. E tale è destinato a rimanere.
Del resto proprio la rivoluzione leninista dell’ottobre del ’17 è la conferma più clamorosa del fallimento scientifico del marxismo. Infatti se le previsioni di Marx si fossero avverate la rivoluzione socialista avrebbe dovuto scoppiare a Londra, non a Pietrogrado. E ciò spiega perché l’ottobre del ’17 non fu una rivoluzione di popolo, ma l’esito fortunato del colpo di mano di un piccolo partito. La previsione marxiana, per la quale la rivoluzione socialista si sarebbe dovuta affermare nei Paesi ad alto sviluppo industriale, non solo ha dimostrato l’erroneità dei suoi assunti, ma ha anche reso evidente che essa non poteva che realizzarsi in quel modo, anzi che essa si è realizzata proprio a causa dell’arretratezza. Le successive misure dittatoriali attuate dai dirigenti comunisti per piegare la realtà alle proprie aspettative vanno dunque considerate non come fatti straordinari, ma come la logica conseguenza dell’insufficienza scientifica della dottrina. La catastrofe del comunismo non è dovuta all’errata attuazione empirica dei suoi princìpi, ma, al contrario, alla loro osservanza: quest’ultima non può svilupparsi, nella concretezza storica, secondo modelli teorici astratti fondati su previsioni errate, ma solo come realmente può darsi. Lenin e il bolscevismo hanno espresso la corrente volontaristica del marxismo, perché hanno posto la decisione politica come elemento determinante per il superamento dell’arretratezza storica. Tuttavia il volontarismo di Lenin è rimasto sempre all’interno della concezione deterministica, secondo la quale la storia è destinata comunque a sfociare nel comunismo.
In realtà il fallimento delle teorie di Marx deriva dal semplice fatto che il marxismo non è una teoria scientifica, bensì una gnosi travestita da scienza. È un intreccio tra il logos e il mithos del profetismo, dove però il logos non è pensiero scientifico, ma solo strumentale razionalizzazione del mithos. Il marxismo, in altre parole, è una pseudoscienza. Basti pensare a tutti i momenti decisivi della storia del movimento operaio e socialista per constatare una serie ininterrotta di eventi mancati che testimoniano il venir meno di tutte le previsioni teoriche del marxismo stesso. Ciò spiega perché, in un secolo, i suoi epigoni hanno detto tutto e il contrario di tutto.
Proprio in relazione a quest’ultimo punto possiamo ricordare che lo stesso Hobsbawm si contraddice quando afferma che «la fine del marxismo ufficiale dell’Unione Sovietica ha liberato Marx dall’identificazione con il leninismo e con i regimi leninisti». In Il secolo breve lo storico aveva sostenuto che il sistema politico nato dall’ottobre del ’17 non era stato veramente totalitario: «per quanto brutale e dittatoriale, il regime sovietico non era “totalitario”» e, anche se questo «era l’obiettivo che Stalin avrebbe voluto raggiungere», ciò non avvenne; in tutti i casi, un esito di tal genere «avrebbe scandalizzato Lenin e gli altri “vecchi bolscevichi”». Affermazione a dir poco stupefacente - questa del comunismo sovietico come regime non totalitario (!) -, che riprende il consunto paradigma della «degenerazione» storica del marxismo: a un Lenin vero comunista, e dunque buono, sarebbe seguito uno Stalin non comunista, e dunque cattivo. Come si vede, Hobsbwam sottraeva allora Lenin dalla sua identificazione con Stalin, esattamente come ora sottrae Marx dalla sua identificazione con Lenin.
Potenza della dialettica (marxista).
Dunque il fallimento del socialismo reale dimostrerebbe l’attualità dello stesso Marx, attualità che consisterebbe nel fatto che la catastrofe del comunismo è coincisa con la vittoria del capitalismo. Si tratta di un apparente paradosso, dato che Marx non c’entra nulla con il socialismo reale; anzi proprio il fallimento dei regimi leninisti dimostrerebbe l’attualità del pensatore di Treviri, un’attualità che consisterebbe nel fatto di aver profetizzato, nel Manifesto, l’economia globale. Non a caso, aggiunge Hobsbawm, sono stati «i capitalisti (come ad esempio Soros) e non i socialisti a riscoprire (Marx)». Infine la vittoria della globalizzazione dimostra la sua attualità. Par di sognare, ma è quanto abbiamo letto.
Effettivamente Marx nel Manifesto anticipa l’esito globale del capitalismo. Hobsbawm però dimentica le altre previsioni fatte dall’autore del Capitale. Cioè le previsioni e le teorie che davano per certa la sconfitta del capitalismo e la vittoria della rivoluzione proletaria; previsioni e teorie smentite dalla storia. È avvenuto infatti il contrario di quanto profetizzato dal pensatore di Treviri e dai suoi seguaci, perché non abbiamo assistito alla fine del capitalismo e all’avvento del comunismo, ma al suo contrario: alla sconfitta del comunismo e alla vittoria del capitalismo. Marx è stato smentito dai fatti, poiché non vi è stata la proletarizzazione crescente nelle società capitalistiche e, tanto meno, nessuno scontro finale tra la società impoverita dal capitalismo e il potere economico ridotto in poche mani. Nei Paesi capitalisti avanzati la rivoluzione sociale, quale esito della proletarizzazione generale, è rimasta un sogno senza alcuna prospettiva pratica. E tale è destinato a rimanere.
Del resto proprio la rivoluzione leninista dell’ottobre del ’17 è la conferma più clamorosa del fallimento scientifico del marxismo. Infatti se le previsioni di Marx si fossero avverate la rivoluzione socialista avrebbe dovuto scoppiare a Londra, non a Pietrogrado. E ciò spiega perché l’ottobre del ’17 non fu una rivoluzione di popolo, ma l’esito fortunato del colpo di mano di un piccolo partito. La previsione marxiana, per la quale la rivoluzione socialista si sarebbe dovuta affermare nei Paesi ad alto sviluppo industriale, non solo ha dimostrato l’erroneità dei suoi assunti, ma ha anche reso evidente che essa non poteva che realizzarsi in quel modo, anzi che essa si è realizzata proprio a causa dell’arretratezza. Le successive misure dittatoriali attuate dai dirigenti comunisti per piegare la realtà alle proprie aspettative vanno dunque considerate non come fatti straordinari, ma come la logica conseguenza dell’insufficienza scientifica della dottrina. La catastrofe del comunismo non è dovuta all’errata attuazione empirica dei suoi princìpi, ma, al contrario, alla loro osservanza: quest’ultima non può svilupparsi, nella concretezza storica, secondo modelli teorici astratti fondati su previsioni errate, ma solo come realmente può darsi. Lenin e il bolscevismo hanno espresso la corrente volontaristica del marxismo, perché hanno posto la decisione politica come elemento determinante per il superamento dell’arretratezza storica. Tuttavia il volontarismo di Lenin è rimasto sempre all’interno della concezione deterministica, secondo la quale la storia è destinata comunque a sfociare nel comunismo.
In realtà il fallimento delle teorie di Marx deriva dal semplice fatto che il marxismo non è una teoria scientifica, bensì una gnosi travestita da scienza. È un intreccio tra il logos e il mithos del profetismo, dove però il logos non è pensiero scientifico, ma solo strumentale razionalizzazione del mithos. Il marxismo, in altre parole, è una pseudoscienza. Basti pensare a tutti i momenti decisivi della storia del movimento operaio e socialista per constatare una serie ininterrotta di eventi mancati che testimoniano il venir meno di tutte le previsioni teoriche del marxismo stesso. Ciò spiega perché, in un secolo, i suoi epigoni hanno detto tutto e il contrario di tutto.
Proprio in relazione a quest’ultimo punto possiamo ricordare che lo stesso Hobsbawm si contraddice quando afferma che «la fine del marxismo ufficiale dell’Unione Sovietica ha liberato Marx dall’identificazione con il leninismo e con i regimi leninisti». In Il secolo breve lo storico aveva sostenuto che il sistema politico nato dall’ottobre del ’17 non era stato veramente totalitario: «per quanto brutale e dittatoriale, il regime sovietico non era “totalitario”» e, anche se questo «era l’obiettivo che Stalin avrebbe voluto raggiungere», ciò non avvenne; in tutti i casi, un esito di tal genere «avrebbe scandalizzato Lenin e gli altri “vecchi bolscevichi”». Affermazione a dir poco stupefacente - questa del comunismo sovietico come regime non totalitario (!) -, che riprende il consunto paradigma della «degenerazione» storica del marxismo: a un Lenin vero comunista, e dunque buono, sarebbe seguito uno Stalin non comunista, e dunque cattivo. Come si vede, Hobsbwam sottraeva allora Lenin dalla sua identificazione con Stalin, esattamente come ora sottrae Marx dalla sua identificazione con Lenin.
Potenza della dialettica (marxista).
«Il Giornale» del 31 gennaio 2011
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