Brano tratto da C. Bologna - P. Rocchi, Rosa fresca aulentissima, vol. 3 (dal Barocco all’Età dei Lumi)
UNA NUOVA CONCEZIONE DELLA POESIA • La nuova posizione sociale del poeta, costretto a confrontarsi con il mercato e quindi con il gradimento del pubblico, insieme alla visione del mondo che la fisica e le scienze naturali vanno promuovendo, concorre a determinare i modi della poesia secentesca. La capacità di suscitare la meraviglia dello spettatore attraverso l’invenzione inusuale, o il moltiplicarsi dei temi e degli oggetti d’interesse, è il prodotto di questa nuova realtà e la incarna perfettamente. La visione del secolo si trova efficacemente riassunta nelle parole di Giambattista Marino: «i poeti che dettano rime senza vivezze fabbricano cadaveri, non poesie». Se molti seguirono il gusto dominante del secolo, e la strada tracciata da Marino, non mancarono però le resistenze, anche tenaci.
L’ORIGINALITÀ E L’INGEGNO • La nuova concezione del tempo e dello spazio propria dell’epoca barocca, così come la percezione della caducità della vita umana e del moto di perenne metamorfosi della natura, incidono sulla produzione letteraria dando vita a un’estetica e a poetiche innovative, che hanno il denominatore comune nel ripudio del classicismo e del principio di imitazione tipici della cultura umanistico-rinascimentale. Il rifiuto di quanto è rigidamente ordinato, armonico e classificato nasce in polemica con la rigorosa precettistica del Cinquecento, fondata su un’interpretazione normativa della Poetica di Aristotele: all’esaltazione della regola e dei princìpi codificati si oppone ora la valorizzazione dell’ingegno del singolo e della sua capacità creativa. Quest’ultima trova nella metafora il suo strumento privilegiato mentre si afferma l’idea che proprio l’originalità dei moderni li renda superiori agli antichi e che il “nuovo” sia preferibile al “classico”.
LA FUNZIONE DELL’ARTE • Nella concezione barocca l’arte non ha lo scopo di imitare e riprodurre la natura ma quello di ri-crearla: grazie all’ingegno e al sapiente utilizzo degli artifici retorici, l’artista barocco ingaggia una gara con la natura e affida alle sue opere il compito di mostrare la sua abilità creativa e demiurgica. Non è l’utilità morale né il fine pedagogico a guidare la mano degli scrittori di quest’epoca ma l’intento di procurare piacere nel pubblico attraverso il “nuovo” e il “meraviglioso”: una poetica di stampo nettamente edonistico si delinea dunque in alternativa al monito di Orazio, ripreso in età rinascimentale, di unire l’utile al “dolce” (utile dulci miscere).
LA FUNZIONE DELLA METAFORA E L’ALLEGORIA BAROCCA • La metafora è strumento essenziale di questa nuova concezione dell’arte: essa mette in relazione tra loro aspetti distanti della realtà, che possono essere avvicinati l’un l’altro mediante accostamenti arguti e fulminei, opera dell’ingegno. Con questo termine la retorica barocca indica la capacità di produrre concetti, ossia collegamenti sorprendenti tra fenomeni lontani o addirittura contrapposti, innescando nel fruitore un effetto di meraviglia: è lo stesso gusto del sorprendente che darà vita al concettismo. A livello letterario, la retorica conquista, dunque, un posto di primo piano, nutrendosi soprattutto di ossimori, metafore e iperboli.
Per l’uomo del Seicento, immerso sempre di più in uno spazio e in un tempo infiniti e privi di centro, il mondo si svela fatto di particolari e frammenti che non sono più tenuti insieme da un significato universale e totalizzante. Entrati in crisi i modelli tradizionali di un sapere depositario di verità assolute e di fronte a una realtà molteplice e spesso caotica, l’uomo barocco cerca, attraverso un’operazione cerebrale e intellettuale, di collegare gli elementi isolati della realtà. Questo procedimento, tipico dell’allegoria, nasce dalla volontà di dare “dall’esterno” un significato (o almeno di cercarlo) alle connessioni tra le cose e alle relazioni tra i frammenti dispersi di un universo che i sensi possono cogliere in modo casuale e isolato. Per questo la metafora, di cui l’allegoria barocca si serve insieme con le altre figure retoriche, non ha valore esornativo ma assolve una funzione gnoseologica, in quanto è strumento di conoscenza del reale di cui prova a svelare le reti di significati. Per lo studioso Giovanni Getto la metafora barocca «prima che un fatto retorico, sembra [...] una visione della vita, sicché per questa civiltà si potrebbe addirittura parlare di un “metaforismo” e di un “metamorfismo” universali come di essenziali modi di avvertire ed esprimere la realtà». In altri termini, la metafora appare, su tutte le figure di significato, la più idonea a rendere la dimensione perennemente mutevole e metamorfica del reale coinvolgendo il lettore-spettatore in una continua sfida interpretativa e chiamandolo a collaborare alla creazione del significato e alla scoperta inesauribile dei volti cangianti con cui la realtà si offre ai nostri occhi. Se da un lato la valorizzazione dell’esperienza e l’esaltazione della meraviglia restituiscono una dimensione di apertura e di novità, dall’altro la crisi dei sistemi tradizionali e la ricerca del possibile significato da attribuire alle cose rivelano un senso tragico del vivere attraversato da una percezione acuta dell’illusorietà e dell’insicurezza della vita.
4a. Acutezza e ingegno
BALTASAR GRACIÁN • Il gesuita spagnolo Baltasar Graciàn (1601-58) è autore di scritti politici e religiosi, di un romanzo intitolato El criticón (Il criticone) e di un trattato intitolato L’Oracolo manuale e arte di prudenza, destinato ad attirare, due secoli più tardi, l’interesse del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, che tradusse il libro di Graciàn e ne fece uso nella propria filosofia.
Ma Baltasar Graciàn è soprattutto il più importante teorico del Barocco letterario. Nel suo famoso trattato Agudeza y arte de ingenio (Acutezza e arte dell’ingegno, 1642 e, in redazione definitiva, 1648), egli spiega il principio dell’acutezza, identificata con il procedimento stilistico che crea, tra cose anche apparentemente distanti, rapporti sottili, evidenziati tramite paradossi, enigmi, contraddizioni o dissonanze. L’ingegno, invece, è sinonimo di un’intelligenza pronta e dotata del gusto per la provocazione. Il vero artista è colui che scopre i legami nascosti e più segreti tra le cose e riesce per la prima volta a renderli manifesti agli altri tramite una serie di procedimenti ingegnosi tipici dell’arte: con essi, deve mirare ad attrarre l’interesse del lettore o del fruitore dell’opera d’arte, attraverso la piacevolezza.
4b. Le poetiche barocche in Italia
IL TRATTATO DELLE ACUTEZZE DI MATTEO PEREGRINI • Rispetto alle posizioni espresse da Graciàn, i trattatisti italiani assunsero orientamenti di maggiore moderazione. Non a caso, il religioso emiliano Matteo Peregrini (1595-1652) nel trattato Delle acutezze (1639) dichiara di apprezzare la poesia del più stimato e discusso poeta italiano del tempo, Giambattista Marino, e di condividere il gusto dilagante per le acutezze, ma esprime la sua preferenza per un tipo di retorica che non renda palesi i suoi artifici. Del resto, anche attraverso la traduzione che Annibal Caro fa della Retorica aristotelica (1570) si era diffusa l’idea che le metafore devono essere adoperate con cautela e senso della misura; Peregrini stesso considera l’arguzia solo un mezzo, invitando a non farla divenire lo scopo stesso di una produzione letteraria volta esclusivamente a suscitare meraviglia.
IL TRATTATO DELLO STILE DI SFORZA PALLAVICINO • Il gesuita romano Sforza Pallavicino, cardinale e storico del Concilio di Trento, pur essendo uno dei trattatisti più inclini al concettismo, si mostra critico nei confronti della poesia del Marino. Il suo Trattato dello stile e del dialogo (1646 e 1662, dopo un’attenta rielaborazione) mette in rilievo l’originalità del concettismo, definendo il concetto «osservazione meravigliosa raccolta in un detto breve», ed esaltandone la rapidità e la sorpresa, ma propone una serie di regole atte a salvaguardare il decoro, l’eleganza e la moralità della scrittura. Il giudizio negativo nei confronti della poesia di Marino scaturisce proprio dalla convinzione che si tratti di un tipo di lirica frivola e dall’apprezzamento per il rinnovamento linguistico operato dalla prosa di tipo scientifico.
DANIELLO BARTOLI E LA CONDANNA DEL CONCETTISMO • Anche il gesuita ferrarese Daniello Bartoli (1608-85), nello scritto Dell’uomo di lettere difeso ed emendato (1645), assume una posizione moderata nei riguardi del concettismo; nel 1648 a Roma intraprende una famosa Istoria della Compagnia di Gesù, edita tra il 1650 e il 1673, mai completata. Negli ultimi anni di vita si dedica alla composizione di trattati scientifici che magnificano l’opera di Dio creatore di un universo armonico e meraviglioso.
Nell’opera Dell’uomo di lettere difeso ed emendato, Bartoli condanna lo stile detto “concettoso” se non è in grado di assicurare il rispetto del decoro e di ottenere un effetto di naturalezza e verosimiglianza. La sua stessa prosa rispecchia in pieno il gusto barocco, ma preoccupandosi sempre di mantenere eleganza e scorrevolezza: vi abbondano arguzie, analogie, metafore e antitesi, ma l’accostamento di questi strumenti retorici non giunge mai all’eccesso. Le sue descrizioni sono caratterizzate da un gusto pittorico di piacevole impatto sul lettore, che viene spesso coinvolto emotivamente mediante l’uso sapiente e misurato degli artifici: interrogative retoriche, esemplificazioni frequenti, antitesi, serie lessicali. Scopo delle descrizioni paesaggistiche, in particolare, è, a suo dire, la volontà di rendere il lettore partecipe e spettatore delle maraviglie del creato.
LA RICREAZIONE DEL SAVIO • Nell’opera intitolata Della ricreazione del savio in discorso con la natura e con Dio (1659) si può apprezzare il suo sentimento barocco, che sa cogliere il mistero del creato e descriverne la bellezza con un profondo senso di meraviglia, scorgendo nella natura l’impronta del suo divino creatore. Il retaggio della tradizione umanistica viene sapientemente conciliato da Bartoli con lo spirito scientifico nascente, in funzione di una scrittura di tipo apologetico e d’impronta religiosa, non senza elementi di edonismo.
4c. Emanuele Tesauro: l’argutezza
VITA E OPERE • Emanuele Tesauro nasce a Torino nel 1592 da una famiglia nobile. Ventenne entra nella Compagnia di Gesù, dalla quale dovrà uscire nella seconda metà degli anni ‘30, prima di lasciare Torino a causa della guerra civile in seguito alla morte di Vittorio Amedeo I (1637). Rientrato in città nel 1642, diviene il precettore di Vittorio Amedeo II. Morirà nella città natale nel 1675.
Considerato uno dei maggiori intellettuali del tempo, si dedica ad ambiti diversi della conoscenza: dalla storia, specie la storia sabauda, alla filosofia, alla retorica, disciplina in cui rientra l’opera per la quale è più noto, Il cannocchiale aristotelico (1654 e, accresciuto, 1670). È inoltre autore di tre tragedie e di un Vocabulario italiano il cui manoscritto è stato solo recentemente (nel 2008) ritrovato e pubblicato dallo studioso Marco Maggi: si tratta di un sistematico spoglio del Vocabolario della Crusca, strutturato, però, non secondo il tradizionale ordine alfabetico, ma disponendo le parole per reti di significato e appartenenza a gruppi semantici affini.
IL CANNOCCHIALE ARISTOTELICO • La pagina iniziale del Cannocchiale, intessuta di lodi sul valore dell’argutezza, manifesta immediatamente il tema centrale di tutta l’opera, vero e proprio emblema della precettistica barocca. Fondato sull’argutezza, che costituisce un principio assoluto ed elitario, il Barocco di Tesauro è il frutto di una realtà ormai mutata rispetto a quella del primo Seicento. Superata, soprattutto, è la ricerca dell’effetto piacevole, l’attenzione esclusiva al diletto del pubblico. L’esaltazione dell’ingegno, da cui l’argutezza discende, comporta un aspetto elitario che ha esattamente l’effetto di escludere l’apertura al grande pubblico. Al contempo, Tesauro riscopre il valore della capacità creativa dell’uomo, in grado di farsi specchio del Creatore: «sì come Dio di quel che non è produce quel che è, così l’ingegno di un non ente, fa ente, fa che il leone diventa un uomo e l’aquila una città».
LA RICERCA DI UN NUOVO ORDINE • Alla forza dirompente del primo Barocco Tesauro oppone una tensione all’ordine nel tentativo di coniugare le novità barocche con alcuni elementi della retorica classica; per questa via il passato non verrà da lui rifiutato ma riassorbito e reintegrato nell’esperienza del moderno. Partendo dal III libro della Retorica di Aristotele, Tesauro definisce il concettismo ponendo al centro della sua indagine la metafora. Il titolo stesso del suo trattato è un esempio di metafora e argutezza barocche: è costruito infatti su un ossimoro che tiene insieme il cannocchiale, ovvero lo strumento “moderno” della nuova scienza galileiana, grazie al quale era stata dimostrata l’infondatezza del sistema aristotelico-tolemaico, e il richiamo ad Aristotele che, nel campo della retorica, Tesauro continua a considerare una fonte autorevole. Dietro il titolo, dunque, è possibile cogliere il senso dell’operazione da lui condotta: «egli sceglie sì una metafora “moderna”, la metafora del più ingegnoso tra i ritrovati della tecnica contemporanea, il cannocchiale, ma il suo cannocchiale sarà, a diversità di quello galileiano, cannocchiale aristotelico» (F. Croce). La Retorica aristotelica gli appare infatti «limpidissimo cannocchiale per esaminare tutte le perfezioni e le imperfezioni dell’eloquenza». Anche l’operazione condotta con il Vocabulario italiano, del resto, testimonia analoga tensione all’ordine, in cui la disposizione delle parole avviene per associazione di significati e per costituzione di aree concettuali, seguendo le categorie della logica aristotelica.
L’ORIGINALITÀ E L’INGEGNO • La nuova concezione del tempo e dello spazio propria dell’epoca barocca, così come la percezione della caducità della vita umana e del moto di perenne metamorfosi della natura, incidono sulla produzione letteraria dando vita a un’estetica e a poetiche innovative, che hanno il denominatore comune nel ripudio del classicismo e del principio di imitazione tipici della cultura umanistico-rinascimentale. Il rifiuto di quanto è rigidamente ordinato, armonico e classificato nasce in polemica con la rigorosa precettistica del Cinquecento, fondata su un’interpretazione normativa della Poetica di Aristotele: all’esaltazione della regola e dei princìpi codificati si oppone ora la valorizzazione dell’ingegno del singolo e della sua capacità creativa. Quest’ultima trova nella metafora il suo strumento privilegiato mentre si afferma l’idea che proprio l’originalità dei moderni li renda superiori agli antichi e che il “nuovo” sia preferibile al “classico”.
LA FUNZIONE DELL’ARTE • Nella concezione barocca l’arte non ha lo scopo di imitare e riprodurre la natura ma quello di ri-crearla: grazie all’ingegno e al sapiente utilizzo degli artifici retorici, l’artista barocco ingaggia una gara con la natura e affida alle sue opere il compito di mostrare la sua abilità creativa e demiurgica. Non è l’utilità morale né il fine pedagogico a guidare la mano degli scrittori di quest’epoca ma l’intento di procurare piacere nel pubblico attraverso il “nuovo” e il “meraviglioso”: una poetica di stampo nettamente edonistico si delinea dunque in alternativa al monito di Orazio, ripreso in età rinascimentale, di unire l’utile al “dolce” (utile dulci miscere).
LA FUNZIONE DELLA METAFORA E L’ALLEGORIA BAROCCA • La metafora è strumento essenziale di questa nuova concezione dell’arte: essa mette in relazione tra loro aspetti distanti della realtà, che possono essere avvicinati l’un l’altro mediante accostamenti arguti e fulminei, opera dell’ingegno. Con questo termine la retorica barocca indica la capacità di produrre concetti, ossia collegamenti sorprendenti tra fenomeni lontani o addirittura contrapposti, innescando nel fruitore un effetto di meraviglia: è lo stesso gusto del sorprendente che darà vita al concettismo. A livello letterario, la retorica conquista, dunque, un posto di primo piano, nutrendosi soprattutto di ossimori, metafore e iperboli.
Per l’uomo del Seicento, immerso sempre di più in uno spazio e in un tempo infiniti e privi di centro, il mondo si svela fatto di particolari e frammenti che non sono più tenuti insieme da un significato universale e totalizzante. Entrati in crisi i modelli tradizionali di un sapere depositario di verità assolute e di fronte a una realtà molteplice e spesso caotica, l’uomo barocco cerca, attraverso un’operazione cerebrale e intellettuale, di collegare gli elementi isolati della realtà. Questo procedimento, tipico dell’allegoria, nasce dalla volontà di dare “dall’esterno” un significato (o almeno di cercarlo) alle connessioni tra le cose e alle relazioni tra i frammenti dispersi di un universo che i sensi possono cogliere in modo casuale e isolato. Per questo la metafora, di cui l’allegoria barocca si serve insieme con le altre figure retoriche, non ha valore esornativo ma assolve una funzione gnoseologica, in quanto è strumento di conoscenza del reale di cui prova a svelare le reti di significati. Per lo studioso Giovanni Getto la metafora barocca «prima che un fatto retorico, sembra [...] una visione della vita, sicché per questa civiltà si potrebbe addirittura parlare di un “metaforismo” e di un “metamorfismo” universali come di essenziali modi di avvertire ed esprimere la realtà». In altri termini, la metafora appare, su tutte le figure di significato, la più idonea a rendere la dimensione perennemente mutevole e metamorfica del reale coinvolgendo il lettore-spettatore in una continua sfida interpretativa e chiamandolo a collaborare alla creazione del significato e alla scoperta inesauribile dei volti cangianti con cui la realtà si offre ai nostri occhi. Se da un lato la valorizzazione dell’esperienza e l’esaltazione della meraviglia restituiscono una dimensione di apertura e di novità, dall’altro la crisi dei sistemi tradizionali e la ricerca del possibile significato da attribuire alle cose rivelano un senso tragico del vivere attraversato da una percezione acuta dell’illusorietà e dell’insicurezza della vita.
4a. Acutezza e ingegno
BALTASAR GRACIÁN • Il gesuita spagnolo Baltasar Graciàn (1601-58) è autore di scritti politici e religiosi, di un romanzo intitolato El criticón (Il criticone) e di un trattato intitolato L’Oracolo manuale e arte di prudenza, destinato ad attirare, due secoli più tardi, l’interesse del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, che tradusse il libro di Graciàn e ne fece uso nella propria filosofia.
Ma Baltasar Graciàn è soprattutto il più importante teorico del Barocco letterario. Nel suo famoso trattato Agudeza y arte de ingenio (Acutezza e arte dell’ingegno, 1642 e, in redazione definitiva, 1648), egli spiega il principio dell’acutezza, identificata con il procedimento stilistico che crea, tra cose anche apparentemente distanti, rapporti sottili, evidenziati tramite paradossi, enigmi, contraddizioni o dissonanze. L’ingegno, invece, è sinonimo di un’intelligenza pronta e dotata del gusto per la provocazione. Il vero artista è colui che scopre i legami nascosti e più segreti tra le cose e riesce per la prima volta a renderli manifesti agli altri tramite una serie di procedimenti ingegnosi tipici dell’arte: con essi, deve mirare ad attrarre l’interesse del lettore o del fruitore dell’opera d’arte, attraverso la piacevolezza.
4b. Le poetiche barocche in Italia
IL TRATTATO DELLE ACUTEZZE DI MATTEO PEREGRINI • Rispetto alle posizioni espresse da Graciàn, i trattatisti italiani assunsero orientamenti di maggiore moderazione. Non a caso, il religioso emiliano Matteo Peregrini (1595-1652) nel trattato Delle acutezze (1639) dichiara di apprezzare la poesia del più stimato e discusso poeta italiano del tempo, Giambattista Marino, e di condividere il gusto dilagante per le acutezze, ma esprime la sua preferenza per un tipo di retorica che non renda palesi i suoi artifici. Del resto, anche attraverso la traduzione che Annibal Caro fa della Retorica aristotelica (1570) si era diffusa l’idea che le metafore devono essere adoperate con cautela e senso della misura; Peregrini stesso considera l’arguzia solo un mezzo, invitando a non farla divenire lo scopo stesso di una produzione letteraria volta esclusivamente a suscitare meraviglia.
IL TRATTATO DELLO STILE DI SFORZA PALLAVICINO • Il gesuita romano Sforza Pallavicino, cardinale e storico del Concilio di Trento, pur essendo uno dei trattatisti più inclini al concettismo, si mostra critico nei confronti della poesia del Marino. Il suo Trattato dello stile e del dialogo (1646 e 1662, dopo un’attenta rielaborazione) mette in rilievo l’originalità del concettismo, definendo il concetto «osservazione meravigliosa raccolta in un detto breve», ed esaltandone la rapidità e la sorpresa, ma propone una serie di regole atte a salvaguardare il decoro, l’eleganza e la moralità della scrittura. Il giudizio negativo nei confronti della poesia di Marino scaturisce proprio dalla convinzione che si tratti di un tipo di lirica frivola e dall’apprezzamento per il rinnovamento linguistico operato dalla prosa di tipo scientifico.
DANIELLO BARTOLI E LA CONDANNA DEL CONCETTISMO • Anche il gesuita ferrarese Daniello Bartoli (1608-85), nello scritto Dell’uomo di lettere difeso ed emendato (1645), assume una posizione moderata nei riguardi del concettismo; nel 1648 a Roma intraprende una famosa Istoria della Compagnia di Gesù, edita tra il 1650 e il 1673, mai completata. Negli ultimi anni di vita si dedica alla composizione di trattati scientifici che magnificano l’opera di Dio creatore di un universo armonico e meraviglioso.
Nell’opera Dell’uomo di lettere difeso ed emendato, Bartoli condanna lo stile detto “concettoso” se non è in grado di assicurare il rispetto del decoro e di ottenere un effetto di naturalezza e verosimiglianza. La sua stessa prosa rispecchia in pieno il gusto barocco, ma preoccupandosi sempre di mantenere eleganza e scorrevolezza: vi abbondano arguzie, analogie, metafore e antitesi, ma l’accostamento di questi strumenti retorici non giunge mai all’eccesso. Le sue descrizioni sono caratterizzate da un gusto pittorico di piacevole impatto sul lettore, che viene spesso coinvolto emotivamente mediante l’uso sapiente e misurato degli artifici: interrogative retoriche, esemplificazioni frequenti, antitesi, serie lessicali. Scopo delle descrizioni paesaggistiche, in particolare, è, a suo dire, la volontà di rendere il lettore partecipe e spettatore delle maraviglie del creato.
LA RICREAZIONE DEL SAVIO • Nell’opera intitolata Della ricreazione del savio in discorso con la natura e con Dio (1659) si può apprezzare il suo sentimento barocco, che sa cogliere il mistero del creato e descriverne la bellezza con un profondo senso di meraviglia, scorgendo nella natura l’impronta del suo divino creatore. Il retaggio della tradizione umanistica viene sapientemente conciliato da Bartoli con lo spirito scientifico nascente, in funzione di una scrittura di tipo apologetico e d’impronta religiosa, non senza elementi di edonismo.
4c. Emanuele Tesauro: l’argutezza
VITA E OPERE • Emanuele Tesauro nasce a Torino nel 1592 da una famiglia nobile. Ventenne entra nella Compagnia di Gesù, dalla quale dovrà uscire nella seconda metà degli anni ‘30, prima di lasciare Torino a causa della guerra civile in seguito alla morte di Vittorio Amedeo I (1637). Rientrato in città nel 1642, diviene il precettore di Vittorio Amedeo II. Morirà nella città natale nel 1675.
Considerato uno dei maggiori intellettuali del tempo, si dedica ad ambiti diversi della conoscenza: dalla storia, specie la storia sabauda, alla filosofia, alla retorica, disciplina in cui rientra l’opera per la quale è più noto, Il cannocchiale aristotelico (1654 e, accresciuto, 1670). È inoltre autore di tre tragedie e di un Vocabulario italiano il cui manoscritto è stato solo recentemente (nel 2008) ritrovato e pubblicato dallo studioso Marco Maggi: si tratta di un sistematico spoglio del Vocabolario della Crusca, strutturato, però, non secondo il tradizionale ordine alfabetico, ma disponendo le parole per reti di significato e appartenenza a gruppi semantici affini.
IL CANNOCCHIALE ARISTOTELICO • La pagina iniziale del Cannocchiale, intessuta di lodi sul valore dell’argutezza, manifesta immediatamente il tema centrale di tutta l’opera, vero e proprio emblema della precettistica barocca. Fondato sull’argutezza, che costituisce un principio assoluto ed elitario, il Barocco di Tesauro è il frutto di una realtà ormai mutata rispetto a quella del primo Seicento. Superata, soprattutto, è la ricerca dell’effetto piacevole, l’attenzione esclusiva al diletto del pubblico. L’esaltazione dell’ingegno, da cui l’argutezza discende, comporta un aspetto elitario che ha esattamente l’effetto di escludere l’apertura al grande pubblico. Al contempo, Tesauro riscopre il valore della capacità creativa dell’uomo, in grado di farsi specchio del Creatore: «sì come Dio di quel che non è produce quel che è, così l’ingegno di un non ente, fa ente, fa che il leone diventa un uomo e l’aquila una città».
LA RICERCA DI UN NUOVO ORDINE • Alla forza dirompente del primo Barocco Tesauro oppone una tensione all’ordine nel tentativo di coniugare le novità barocche con alcuni elementi della retorica classica; per questa via il passato non verrà da lui rifiutato ma riassorbito e reintegrato nell’esperienza del moderno. Partendo dal III libro della Retorica di Aristotele, Tesauro definisce il concettismo ponendo al centro della sua indagine la metafora. Il titolo stesso del suo trattato è un esempio di metafora e argutezza barocche: è costruito infatti su un ossimoro che tiene insieme il cannocchiale, ovvero lo strumento “moderno” della nuova scienza galileiana, grazie al quale era stata dimostrata l’infondatezza del sistema aristotelico-tolemaico, e il richiamo ad Aristotele che, nel campo della retorica, Tesauro continua a considerare una fonte autorevole. Dietro il titolo, dunque, è possibile cogliere il senso dell’operazione da lui condotta: «egli sceglie sì una metafora “moderna”, la metafora del più ingegnoso tra i ritrovati della tecnica contemporanea, il cannocchiale, ma il suo cannocchiale sarà, a diversità di quello galileiano, cannocchiale aristotelico» (F. Croce). La Retorica aristotelica gli appare infatti «limpidissimo cannocchiale per esaminare tutte le perfezioni e le imperfezioni dell’eloquenza». Anche l’operazione condotta con il Vocabulario italiano, del resto, testimonia analoga tensione all’ordine, in cui la disposizione delle parole avviene per associazione di significati e per costituzione di aree concettuali, seguendo le categorie della logica aristotelica.
Postato il 9 febbraio 2011
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