24 febbraio 2011

C’è una bioetica della speranza

di Claudio Sartea
La prima Giornata nazionale degli stati vegetativi celebrata il 9 febbraio, e preceduta da polemiche anche roventi, è trascorsa lasciando dietro a sé per qualche giorno un borbottìo confuso, e infine il silenzio. È il momento di considerare con imparzialità il senso di queste giornate di dibattito.
Il Corriere della Sera ha dedicato all’anniversario della morte di Eluana Englaro due contributi: la lunga intervista al padre e tutore, domenica 6, e l’editoriale mercoledì 9, in prima pagina.
Chi abbia letto quei testi troverà quasi certamente molto centrate le osservazioni sviluppate da Francesco D’Agostino nell’introduzione al suo nuovo, importante volume Bioetica e biopolitica. Ventuno voci fondamentali (Giappichelli, 252 pagine, 23 euro): «L’orizzonte postmoderno è articolato e multiforme. In tutte le sue varianti, però, esso porta a un unico esito: quello per il quale l’impegno per la verità (Pascal avrebbe detto: l’amore) è in sé e per sé privo di senso. (...) Gli uomini della postmodernità sembra che stiano percorrendo strade divergenti o al più parallele, destinate a non intersecarsi, né meno che mai a convergere, strade quindi solitarie e inevitabilmente tristi (come triste è ogni esperienza solipsistica, dato che il calore non ci viene dato dalle cose, ma dalle persone)».
Lo spazio riservato alle inquietudini e persino ai rancori di Beppino Englaro, o le malinconiche affermazioni dell’editoriale di Isabella Bossi Fedrigotti, lasciano il sapore triste del rimpianto, al limite di una contenuta disperazione: senz’altro dell’inutilità, che della «malattia mortale» costituisce la fonte e il contrassegno psichico. 'Inutile' sarebbe il lungo periodo trascorso in stato vegetativo da Eluana (che secondo il tutore e padre era morta sin dal giorno dell’incidente: donde l’assurdità del comportamento di chi per più di seimila giorni si è preso cura di lei), inutile o addirittura dannoso lo sforzo di progresso delle scienze biomediche, che ci avrebbero 'rubato' (questa l’accusa dell’editoriale) la morte come mesto e rassegnato annuncio 'che la benzina è finita'. Non è questo il momento per polemizzare sterilmente sulla contraddizione insita – una sorta di 'duplice frenesia' – nell’asciugarsi con una mano le lacrime che rimpiangono il bel tempo andato, e sbandierare con l’altra gli straordinari progressi benefici della scienza medica. È molto più interessante, e forse anche importante, capire dove si sta costruendo, e muoversi in quella direzione. La tristezza non edifica, al contrario deprime, corrode e distrugge. Ciò che costruisce è sempre la gioia della speranza: e se è una gioia condivisa, partecipata da un numero sempre più ampio di persone, questo è un buon sintomo che si tratta di una gioia pienamente umana, e non di esaltazione solitaria e titanica, più simile a un’euforia patologica e incomunicabile che a una progettualità comune.
La gioia della speranza nasce dall’incrollabile e ragionevolissima convinzione che ogni vita umana è degna, e si diffonde e concretizza in progetti, che attraggono per la loro positività e coinvolgono, ingaggiano, fanno scaturire energie. Non basta il maggiore o minor rigore argomentativo: alla vita umana occorre anche passione, impegno, ricerca e reperimento di senso. D’Agostino conclude la sua introduzione dicendo che «bioetica e biopolitica hanno una loro logica e certamente hanno comunque bisogno di ragionamenti logicamente coerenti; ma hanno soprattutto un cuore. (...) Da questa idea, nella quale ontologia e assiologia si fondono e si confondono, deriva l’unica possibilità di scrivere parole non votate alla tristezza, ma aperte piuttosto alla speranza e provviste di senso».
Attorno alla polemica sulla Giornata del 9 febbraio ha ripreso campo un approccio negativo alla vita segnata dalla disabilità e dalla morte. E ci stupiamo se si parla di esistenze non più degne?
«Avvenire» del 17 febbraio 2011

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