di Andrea Bisicchia
Giorgio Colli è stato il curatore di tutte le Opere di Friedrich Nietzsche, nelle versioni sue, di Mazzino Montanari e di Sossio Giametta che ne è stato il traduttore per eccellenza. L’editore Adelphi ha appena pubblicato di Colli Apollineo e dionisiaco; si tratta di una serie di scritti, concepiti ed elaborati tra il 1938 e il 1940, per meglio approfondire cosa il filosofo tedesco intendesse con i due termini molto citati e, per Colli, non sempre capiti, benché Nietzsche stesso ne avesse dato una definizione, concependoli come nomi rappresentativi dei contrari stilistici nel mondo dell’arte, quasi sempre in lotta tra loro anche se solo una volta appaiono fusi, quando 'la volontà' ellenica culmina nella tragedia greca. Per il filosofo tedesco, che subì tante angherie da parte di filologi illustri, come Wilanowitz, che lo invitò ad abbandonare la cattedra della quale, a suo avviso, si sarebbe rivelato indegno, la conoscenza del mondo antico procedeva per accumuli, che non sempre rispettavano l’uso degli apparati e delle bibliografie, ma che, in verità, mostravano non soltanto la sua voracità nel voler conoscere la filosofia, il pensiero, la drammaturgia dei Greci, ma anche il suo accostarsi a quel mondo con delle proprie interpretazioni e con risultati che alternavano il vitalismo col flusso dell’immaginazione estetica.
Gli uomini eccezionali, diceva, sanno atteggiarsi in modi opposti alla vita; l’archetipo di tali atteggiamenti è da ricercarsi nella contrapposizione tra apollineo e dionisiaco, da indagare, secondo Giorgio Colli, in senso storico e in senso filosofico. Nietzsche scoprì la grecità come un supremo valore ed il suo accostarsi ad essa fu, per lui, principalmente di carattere estetico più che filologico. In La nascita della tragedia, egli non accettò che la tragedia fosse nata dal popolare ditirambo, come sostenevano molti antichisti, ma che risultasse connubio-antitesi tra verità e bellezza, senza per questo, rappresentare né l’assoluta bellezza, né l’assoluta verità, benché la si dovesse considerare come il punto culminante della grecità. C’è chi sostiene che Nietzsche amasse non la tragedia in sé, ma il sorgere della stessa e che odiasse ciò che la trasformava in dramma, ovvero l’azione e il dialogo. Egli andava in cerca del principio di tutte le cose, dell’àpeiron , ovvero dell’essenza metafisica del mondo, la sola che permettesse la contemplazione del sublime. Questa concezione apollinea si contrapponeva a quella dionisiaca, ovvero allo stato collettivo dell’ebbrezza, nel quale convivono gioia e dolore e da dove sgorga la creazione spirituale da ritenere sempre connessa alla civiltà di un popolo ben rispecchiata nel coro greco. Per Giorgio Colli, esiste un divario tra l’anima del filosofo e l’ebbrezza dionisiaca in senso storico, per tanti aspetti vicina al cristianesimo, tanto che per colmarlo, Nietzsche dovette risalire alle origini e, quindi, al rapporto tra la violenza e il sacro. Questi due aspetti, secondo Colli, sono difficili da individuare e da definire nettamente, poiché si trattava di due maniere di accostarsi alla vita, antitetici, ma reali, oltre che di una visione del tragico intesa, non come interpretazione del mondo greco, ma come elemento portante del suo pensiero.
Gli uomini eccezionali, diceva, sanno atteggiarsi in modi opposti alla vita; l’archetipo di tali atteggiamenti è da ricercarsi nella contrapposizione tra apollineo e dionisiaco, da indagare, secondo Giorgio Colli, in senso storico e in senso filosofico. Nietzsche scoprì la grecità come un supremo valore ed il suo accostarsi ad essa fu, per lui, principalmente di carattere estetico più che filologico. In La nascita della tragedia, egli non accettò che la tragedia fosse nata dal popolare ditirambo, come sostenevano molti antichisti, ma che risultasse connubio-antitesi tra verità e bellezza, senza per questo, rappresentare né l’assoluta bellezza, né l’assoluta verità, benché la si dovesse considerare come il punto culminante della grecità. C’è chi sostiene che Nietzsche amasse non la tragedia in sé, ma il sorgere della stessa e che odiasse ciò che la trasformava in dramma, ovvero l’azione e il dialogo. Egli andava in cerca del principio di tutte le cose, dell’àpeiron , ovvero dell’essenza metafisica del mondo, la sola che permettesse la contemplazione del sublime. Questa concezione apollinea si contrapponeva a quella dionisiaca, ovvero allo stato collettivo dell’ebbrezza, nel quale convivono gioia e dolore e da dove sgorga la creazione spirituale da ritenere sempre connessa alla civiltà di un popolo ben rispecchiata nel coro greco. Per Giorgio Colli, esiste un divario tra l’anima del filosofo e l’ebbrezza dionisiaca in senso storico, per tanti aspetti vicina al cristianesimo, tanto che per colmarlo, Nietzsche dovette risalire alle origini e, quindi, al rapporto tra la violenza e il sacro. Questi due aspetti, secondo Colli, sono difficili da individuare e da definire nettamente, poiché si trattava di due maniere di accostarsi alla vita, antitetici, ma reali, oltre che di una visione del tragico intesa, non come interpretazione del mondo greco, ma come elemento portante del suo pensiero.
Giorgio Colli, Apollineo e dionisiaco, Adelphi, pp. 210, € 14,00
Adelphi raccoglie una serie di scritti del curatore dell’«Opera omnia» del filosofo tedesco, nei quali scava alle sorgenti dei concetti di apollineo e dionisiaco. Con un occhio a Cristo
«Avvenire» del 5 febbraio 2011
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