Risposta all’intervento di Andrea Carandini: l’aurea mediocritas può essere positiva
di Giuseppe Galasso
Oggi il livello culturale medio è superiore a quello del passato
Andrea Carandini ha denunciato ieri sul «Corriere della Sera» il declino e la mediocrità del sistema culturale italiano, un Paese incapace di pensare ed elaborare un riscatto culturale, dove «l’asino e il sapiente si sono pericolosamente ravvicinati» e dove il corpo ha preso il sopravvento sulla mente. Ospitiamo oggi una riflessione di Giuseppe Galasso.
Ricordo la sorpresa e la curiosità intellettuale, che suscitò in me, ancora studente di liceo, il leggere, in un commento allo odi di Orazio, il consiglio di tradurre la famosa aurea mediocritas di quel poeta come «mediocrità d’oro anziché come «aurea mediocrità». Quest’ultima versione era quella comune ed era passata nel linguaggio corrente per indicare una condizione di non eccellenza, ma neppure di estrema bassura, in cui aspirazioni e desideri erano legati a una scarsezza di personalità e di capacità, che ne veniva incrementata e finiva col rendere o illudere di essere contenti di se stessi. Un po’insomma come «senza infamia e senza lode», per dirla con Dante. La «mediocrità d’oro» trasfigurava l’espressione oraziana. Suggeriva una condizione da apprezzare come indice di un giusto mezzo tra i rischi e l’isolamento di eccellenze un po’sospese nel vuoto sul mare tempestoso della vita e i disagi e gli svantaggi affliggenti di condizioni di accentuata inferiorità morale e sociale. Ritengo tuttora che «la mediocrità d’oro» sia la traduzione migliore, ma con gli anni il problema della mediocrità mi si è trasformato in altri e ardui problemi. Ad esempio, il livello medio della cultura degli italiani si è abbassato fino a far distinguere poco fra l’asino e il paziente, come dice Andrea Carandini, oppure il livello minore si è elevato fino a rendere meno evidente la distanza fra il massimo e il minimo? Questo punto mi fa pensare a quando mi chiedo che cosa i poveri che ho conosciuto da ragazzo, negli anni a cavaliere della guerra, penserebbero dei poveri di oggi. La risposta è per me spontanea: i poveri di ieri invidierebbero molto i poveri di oggi. Eppure, le disuguaglianze di fortune non sono per nulla diminuite. Anzi, sono cresciute. Per la cultura occorre poi distinguere tra quella scolastica, ossia l’istruzione, e la cultura generale nascente dall’esperienza e dai modi di vivere. Negli ultimi tre o quattro decenni il livello dell’istruzione si è in Italia piuttosto largamente abbassato sotto una poco contrastata spinta demagogica e facilista. Interessante sarebbe rievocare qui percorsi che hanno portato a un tale risultato per cui, dice Carandini, l’asino si è avvicinato sempre più pericolosamente al sapiente. Se, tuttavia, dovessi dire che il livello culturale medio dell’Italia di oggi è inferiore a quello dell’Italia di mezzo secolo fa, mi troverei in imbarazzo. Il livello superiore di una volta era in massima parte legato a particolari condizioni sociali. Nel mio quartiere napoletano, uno dei più popolari, la divisione sociale emergeva subito nelle scelte scolastiche. I più agiati andavano al ginnasio-liceo classico (le fortune del liceo scientifico erano appena all’inizio); quelli della piccola e piccolissima borghesia o dei ceti popolari in migliori condizioni andavano agli istituti tecnici o al magistrale: quelli dei ceti più popolari andavano, quando vi andavano, alla scuola di avviamento e, se gli veniva bene, agli istituti professionali. Le eccezioni a questo schema fatale della geografia sociale della scuola erano alquanto più frequenti di quanto si potrebbe credere, ma costavano ai ragazzi e alle loro famiglie indicibili sacrifici. Oggi, è ovvio, il livello sociale conta sempre. Non a tutti è dato di andare a Cambridge, a Harvard, al Mit o altre sedi di eccellenza. Eppure, se il livello scolastico si è abbassato, il livello di cultura generale è, a mio avviso, mediamente cresciuto: come conoscenza delle lingue straniere, come una qualche infarinatura di informazione sui più disparati argomenti scientifici e culturali e sui più lontani Paesi del mondo (prima noti solo, e male, agli emigrati), come indice di lettura e consumo dei libri (benché in ciò si sia in Italia assai indietro) e insomma in tutto ciò che porta a misurare la cultura sulla vita e l’esperienza del «comune degli uomini» (come diceva Machiavelli). Insomma, l’aurea mediocrità è difficilmente sopportabile e l’ignoranza diffusa non lo è affatto. Ma non ci si può chiudere in questa indiscutibile verità nella vita sociale e neppure nella vita culturale. Semmai, ci sarebbe da riflettere sul grande problema e la grande impresa di trasformare l’aurea mediocrità in mediocrità d’oro, senza nessun detrimento o impedimento delle eccellenze che, anche nei tempi di migliore e più diffusa istruzione a questo o quel livello sociale, sono sempre rare o rarissime. A meno di non rinchiudersi in un elitismo quanto si voglia fine e di non credere, col grande storico russo Rostovzev, che quando la civiltà diventa un fenomeno di massa allora essa fatalmente declina e muore. Che è una veduta profonda e suggestiva, densa di malinconia dello spirito e della volontà. Io la apprezzo, ma non la condivido.
«Corriere della Sera» del 24 gennaio 2011
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