Mario Andrea Rigoni, sulla scia di Leopardi, racconta la tristezza dell’effimero. Ma in ciò che è vano c’è bellezza
di Marcello Veneziani
E se la vanità fosse il motore virtuoso del mondo? E se tutto ciò che di più nobile realizza l’uomo - l’arte, la poesia, il pensiero, la scienza, la politica e perfino la santità - provenisse dalla vanità? Vanità è il piacere di farsi piacere ma è anche il sentimento del vuoto, dell’inanità del mondo e delle cose. E se l’uomo privo di vanità si spegnesse, o degradasse al rango di vegetale, anzi di minerale, perché le piante forse sono esse pure vanitose? E magari anche i rubini, anche gli ori e i diamanti, sono a loro modo affetti da vanità...
Ho sentito l’impulso a difendere la vanità leggendo il libretto a lei dedicato da Mario Andrea Rigoni, leopardiano contemporaneo. Ho vanamente inseguito questo libretto per circa due mesi. L’ho cercato prima che uscisse, l’ho poi vanamente richiesto all’editore Nino Aragno, dopo mi sarò distratto un attimo ed era già esaurito. Infine, dopo averlo vanamente ordinato a più librerie, l’ho trovato. Forse è questa vana ricerca che mi ha fatto crescere il desiderio e il gusto di leggerlo. Parlo di Vanità (pagg.107, 10 euro), copertina nera come si addice ad un fratello minore di Cioran e a un discendente umorale di Leopardi. Di Rigoni segnalo pure lo splendido saggio, anch’esso nero-pece, Il pensiero di Leopardi, uscito l’anno scorso dallo stesso Aragno. Un saggio più bello del più recensito Leopardi di Pietro Citati, uscito nel contempo da Rizzoli.
È un libretto di pensieri brevi, quello di Rigoni, in verità decrescente: molto bello il primo capitolo, bello il secondo, meno bello il terzo, dedicato in prevalenza agli snob, infine annegato in un’ampia antologia di citazioni a cui manca forse l’epigrafe regina in tema di vanità. Quel: fama? fumus, homo? humus, finis? cinis, che è davvero il necrologio di ogni vanità.
Ho letto il libretto di Rigoni su uno scoglio dell’Algarve laddove finisce l’Europa, bevuta dall’Atlantico. Ero assediato dalle onde, sperduto sull’orlo dell'Oceano e notavo che la felicità più bella è la più vana, perché non si lega a nulla fuori di se stessa, la pienezza di un istante rubato all’eternità. Leggendolo lì, coricato sulle rocce, giungevo agli antipodi delle conclusioni di Rigoni, coniugando la vanità alla felicità e la vacuità alla essenza nobile della vita.
Nella sua prosa disperata godevo lo spettacolo dell’intelligenza che spalanca l’animo. Uno spettacolo vano ed esaltante, che trovo anche gioioso, tutt’altro che sepolcrale. E poi fa piacere incontrare uno più pessimista di te, ti fa sentire allegro e fiducioso al paragone...
Rigoni giudica il mondo un frutto vano della vanità di Dio. Ma ritiene che la vanità sia il desiderio di resistere alla morte, di essere e non sparire. Non morire! Non morire! fu il sogno supremo che Miguel de Unamuno riconobbe dietro la sua stessa scrittura e filosofia. Non morire è il sogno pietoso della vanità; ma la percezione di assurdità del sogno, lo rende tragico, nobile e vero. Rigoni segue la metafisica del niente di padre Emanuele Tesauro, e torna al nichilismo seduttivo di Cioran, una disperazione che riesce a sublimarsi in letteratura, in estetica, distillata nella magìa della parola. E allora va distinta la vanità rivolta al fatuo compiacersi dalla vanità intesa come sentimento del vano ed esercizio operoso dell’inutile. La prima vanità degrada l’uomo a fiore, come nel mito di Narciso; invece la seconda specie di vanità eleva l’uomo perché l’inutile è il blasone dell’anima ben nata. «Coloro che noi chiamiamo inutili sono le vere guide» dice Platone.
In Rigoni c’è l’Ecclesiaste con la sua vanitas vanitatum, c’è forse traccia della Gnosi e del suo mondo creato da un demiurgo funesto. Ma c’è soprattutto Leopardi e la sua strage di illusioni. Splendido quel suo Leopardi brutto, pallido e deforme ma con un sorriso angelico ed una passione infantile per la cucina. Della vita di Leopardi colpiscono varie cose; a me colpì quasi quanto i suoi canti e i suoi pensieri, l’immagine di lui morente che si delizia avidamente in Napoli con i gelati. Ho visto nella mente Leopardi ingoiare voracemente una granita di limone prima di spirare; un uomo vecchio di 38 autunni, ma con un volto che, stando al calco mortuario esposto a Recanati, era somigliante a quello di Bobbio novantenne. Ma in quel vano e famelico gustarsi la granita si coglieva il nesso struggente tra un’infanzia avariata, sul punto di morire, e un estremo attaccamento alla vita e alle sue puerili golosità. Il pensiero della morte aveva dominato la sua vita; ora, finalmente giunto al suo cospetto, voleva assentarsi, perdersi nel piacere bambino, infimo e assoluto di una granita. Avrei voluto vederlo come gustava l’ultimo gelato; solo a immaginarlo, avido e morente, gli occhi si appannano di lacrime. In quel gesto vedo l’espressione più acuta della vanità, laddove il frivolo e il tragico si sciolgono tra le scaglie dolci e agre di una limonata.
Ho sentito l’impulso a difendere la vanità leggendo il libretto a lei dedicato da Mario Andrea Rigoni, leopardiano contemporaneo. Ho vanamente inseguito questo libretto per circa due mesi. L’ho cercato prima che uscisse, l’ho poi vanamente richiesto all’editore Nino Aragno, dopo mi sarò distratto un attimo ed era già esaurito. Infine, dopo averlo vanamente ordinato a più librerie, l’ho trovato. Forse è questa vana ricerca che mi ha fatto crescere il desiderio e il gusto di leggerlo. Parlo di Vanità (pagg.107, 10 euro), copertina nera come si addice ad un fratello minore di Cioran e a un discendente umorale di Leopardi. Di Rigoni segnalo pure lo splendido saggio, anch’esso nero-pece, Il pensiero di Leopardi, uscito l’anno scorso dallo stesso Aragno. Un saggio più bello del più recensito Leopardi di Pietro Citati, uscito nel contempo da Rizzoli.
È un libretto di pensieri brevi, quello di Rigoni, in verità decrescente: molto bello il primo capitolo, bello il secondo, meno bello il terzo, dedicato in prevalenza agli snob, infine annegato in un’ampia antologia di citazioni a cui manca forse l’epigrafe regina in tema di vanità. Quel: fama? fumus, homo? humus, finis? cinis, che è davvero il necrologio di ogni vanità.
Ho letto il libretto di Rigoni su uno scoglio dell’Algarve laddove finisce l’Europa, bevuta dall’Atlantico. Ero assediato dalle onde, sperduto sull’orlo dell'Oceano e notavo che la felicità più bella è la più vana, perché non si lega a nulla fuori di se stessa, la pienezza di un istante rubato all’eternità. Leggendolo lì, coricato sulle rocce, giungevo agli antipodi delle conclusioni di Rigoni, coniugando la vanità alla felicità e la vacuità alla essenza nobile della vita.
Nella sua prosa disperata godevo lo spettacolo dell’intelligenza che spalanca l’animo. Uno spettacolo vano ed esaltante, che trovo anche gioioso, tutt’altro che sepolcrale. E poi fa piacere incontrare uno più pessimista di te, ti fa sentire allegro e fiducioso al paragone...
Rigoni giudica il mondo un frutto vano della vanità di Dio. Ma ritiene che la vanità sia il desiderio di resistere alla morte, di essere e non sparire. Non morire! Non morire! fu il sogno supremo che Miguel de Unamuno riconobbe dietro la sua stessa scrittura e filosofia. Non morire è il sogno pietoso della vanità; ma la percezione di assurdità del sogno, lo rende tragico, nobile e vero. Rigoni segue la metafisica del niente di padre Emanuele Tesauro, e torna al nichilismo seduttivo di Cioran, una disperazione che riesce a sublimarsi in letteratura, in estetica, distillata nella magìa della parola. E allora va distinta la vanità rivolta al fatuo compiacersi dalla vanità intesa come sentimento del vano ed esercizio operoso dell’inutile. La prima vanità degrada l’uomo a fiore, come nel mito di Narciso; invece la seconda specie di vanità eleva l’uomo perché l’inutile è il blasone dell’anima ben nata. «Coloro che noi chiamiamo inutili sono le vere guide» dice Platone.
In Rigoni c’è l’Ecclesiaste con la sua vanitas vanitatum, c’è forse traccia della Gnosi e del suo mondo creato da un demiurgo funesto. Ma c’è soprattutto Leopardi e la sua strage di illusioni. Splendido quel suo Leopardi brutto, pallido e deforme ma con un sorriso angelico ed una passione infantile per la cucina. Della vita di Leopardi colpiscono varie cose; a me colpì quasi quanto i suoi canti e i suoi pensieri, l’immagine di lui morente che si delizia avidamente in Napoli con i gelati. Ho visto nella mente Leopardi ingoiare voracemente una granita di limone prima di spirare; un uomo vecchio di 38 autunni, ma con un volto che, stando al calco mortuario esposto a Recanati, era somigliante a quello di Bobbio novantenne. Ma in quel vano e famelico gustarsi la granita si coglieva il nesso struggente tra un’infanzia avariata, sul punto di morire, e un estremo attaccamento alla vita e alle sue puerili golosità. Il pensiero della morte aveva dominato la sua vita; ora, finalmente giunto al suo cospetto, voleva assentarsi, perdersi nel piacere bambino, infimo e assoluto di una granita. Avrei voluto vederlo come gustava l’ultimo gelato; solo a immaginarlo, avido e morente, gli occhi si appannano di lacrime. In quel gesto vedo l’espressione più acuta della vanità, laddove il frivolo e il tragico si sciolgono tra le scaglie dolci e agre di una limonata.
«Il Giornale» del 23 febbraio 2011
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