di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. dalla storia al testo, vol. 3/1. D’Annunzio e Pascoli
Il modo nuovo di percepire il reale si traduce, nella poesia pascoliana, in soluzioni formali fortemente innovative, che aprono la strada alla poesia novecentesca. Nelle analisi dei testi avremo modo di verificare nel concreto gli aspetti salienti del linguaggio poetico pascoliano. Ci limitiamo ora ad indicare alcune linee direttrici generali.
La sintassi L’aspetto che forse colpisce più immediatamente è quello sintattico. La sintassi di Pascoli è ben diversa da quella della tradizione poetica italiana, che era modellata sui classici e fondata su elaborate e complesse gerarchie di proposizioni principali, coordinate e subordinate (tale era ancora la sintassi carducciana, e continuava ad essere quella del D’Annunzio più aulico): nei suoi testi poetici la coordinazione prevale sulla subordinazione, di modo che la struttura sintattica si frantuma in serie paratattiche di brevi frasi allineate senza rapporti gerarchici tra di loro, spesso collegate non da congiunzioni, ma per asindeto. Di frequente, inoltre, le frasi sono ellittiche, mancano del soggetto, o del verbo, o assumono la forma dello stile nominale (successione di semplici sostantivi e aggettivi).
Il rifiuto di una sistemazione logica dell’esperienza L’architettura della frase classica indicava la volontà di chiudere i dati del reale in una rigorosa rete di rapporti logici, in cui ogni elemento fosse posto in una relazione gerarchica con gli altri; la frantumazione pascoliana, al contrario, rivela il rifiuto di una sistemazione logica dell’esperienza, il prevalere della sensazione immediata, dell’intuizione, dei rapporti analogici, allusivi, suggestivi, che indicano una trama di segrete corrispondenze tra le cose, al di là del visibile. È una sintassi che traduce perfettamente la visione del mondo pascoliana, una visione "fanciullesca", alogica, che mira a rendere il mistero, l’alone indefinito che circonda le cose, a scendere intuitivamente nel profondo della loro essenza, e quindi svaluta e scompone i rapporti gerarchici abituali, grande e piccolo, importante e meno importante, centrale e periferico.
L’atmosfera visionaria La conseguenza è che, come ha osservato Sanguineti, gli oggetti più quotidiani e comuni, visti attraverso quest’ottica, presentano una fisionomia stranita, appaiono come immersi in un’atmosfera visionaria, o di sogno. Non essendovi più gerarchie, nel mondo pascoliano si introduce un relativismo «che non ha più punti di riferimento esterni, oggettivi» (Bàrberi Squarotti). Questo smarrimento dei moduli d’ordine consueti in cui veniva tradizionalmente sistemata la percezione del reale, questo relativismo e questa apertura delle prospettive sono alcune delle caratteristiche più tipiche della letteratura del Novecento.
Il lessico: mescolanza di codici diversi Al livello del lessico, si possono osservare fenomeni analoghi. Pascoli non usa un lessico "normale", fissato entro un unico codice, come era proprio di tutta la tradizione monolinguistica della poesia italiana a partire da Petrarca: mescola tra loro codici linguistici diversi, allinea fianco a fianco termini tratti dai settori più disparati. Non nascono tuttavia scontri di livelli, conflitti parossistici di registri: come le cose convivono senza gerarchie, così avviene delle parole che le designano. È un principio formulato nel Fanciullino: il poeta, come vuole abolire la lotta fra le classi sociali, così vuole abolire la "lotta" fra le classi di oggetti e di parole. Troviamo quindi nei suoi testi termini preziosi e aulici, della lingua dotta, o ricavati dai modelli antichi (epiteti e formule omeriche, ad esempio) ; termini gergali e dialettali, riferentisi alla realtà campestre, in genere tratti dal linguaggio dei contadini della Garfagnana; una minuziosa, precisa terminologia botanica ed ornitologica, ad indicare le infinite varietà d’alberi, fiori, uccelli che popolano i suoi versi; termini dimessi e quotidiani del parlato colloquiale; parole provenienti da lingue straniere, come avviene in Italy, dove spesso ricorrono espressioni inglesi, oppure, di quel curioso impasto che è proprio degli emigranti, un inglese italianizzato («bisini» per business, «scrima» per ice cream, «stima» per steamer, «bacchetto» per basket) ; si aggiunge ancora, nel contesto più estetizzante dei Poemi conviviali, il gusto per i nomi propri antichi, riprodotti con parnassiana raffinatezza nella loro grafia originale, un preziosismo antiquario che ricorre anche nelle Canzoni di re Enzio, dove il poeta si studia di riprodurre un’arcaica lingua duecentesca.
L’infrazione alla norma e la caduta delle certezze Questa pluralità di codici linguistici costituisce una vistosa infrazione alla norma dominante nella poesia italiana. Come ha autorevolmente osservato Contini, «quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che nell’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un mondo certo, ontologicamente ben determinato, in un mondo gerarchizzato dove i rapporti stessi tra l’io e il non-io, tra l’uomo e il cosmo sono determinati, hanno dei limiti esatti, delle frontiere precognite. Le eccezioni alla norma significheranno allora che il rapporto tra l’io e il mondo in Pascoli è un rapporto critico, non è più un rapporto tradizionale. E caduta quella certezza assistita di logica che caratterizzava la nostra letteratura fino a tutto il primo romanticismo».
Gli aspetti fonici Grande rilievo hanno poi, nella poesia pascoliana, gli aspetti fonici, cioè i suoni che compongono le parole. Quelle che più colpiscono sono le forme definite da Contini «pregrammaticali» o «cislinguistiche», quelle espressioni, cioè, che si situano al di sotto del livello strutturato della lingua e non hanno un valore semantico, non rimandano ad un significato concettuale, come è proprio del linguaggio grammaticalizzato, ma imitano direttamente l’oggetto. Sono in prevalenza riproduzioni onomatopeiche di versi d’uccelli («videvitt», «scilp», «chiù», «trr trr trr terit terit», «chic chio», «finch») o suoni di campane («Don Don»), non a caso i suoni che in Pascoli si caricano di più intenso valore simbolico, assumendo come un senso oracolare, di comunicazione d’arcani messaggi.
L’onomatopea Queste onomatopee non mirano certo ad una riproduzione puramente neutra, naturalistica, del dato oggettivo: indicano invece un’esigenza di aderire immediatamente all’oggetto, di penetrare nella sua essenza segreta evitando le mediazioni logiche del pensiero e della parola codificata, rientrano insomma in quella visione alogica del reale che è propria di tutta la poesia pascoliana.
II fonosimbolismo Al di là delle vere e proprie onomatopee, costantemente i suoni usati da Pascoli possiedono un valore fonosimbolico, tendono ad assumere un significato di per se stessi, senza rimandare al significato della parola. Tra questi suoni si crea una trama sotterranea di echi e rimandi (ad esempio, come ha notato Elio Gioanola, nel Gelsomino notturno i fonemi /l/ e /a/ sono ripresi continuamente, e sono proprio i fonemi dell’avverbio «là», quello che indica la lontananza della casa dove si svolge il rito di fecondazione da cui il poeta è escluso). Questa trama viene a costituire la vera architettura interna del testo, a supplire, come suggerisce Gian Luigi Beccaria, l’assenza di strutture logico-sintattiche. Allo stesso fine concorrono altri procedimenti, sempre pertinenti alla sfera fonica, usati sistematicamente da Pascoli, quali assonanze ed allitterazioni.
La metrica La metrica pascoliana è apparentemente tradizionale, nel senso che impiega i versi più consueti della poesia italiana, endecasillabi, decasillabi, novenari, settenari, ecc., e gli schemi di rime e le strofe più usuali, rime baciate, alternate, incatenate, terzine, quartine, strofe saffiche. Ma in realtà questi materiali son piegati dal poeta in direzioni personalissime. Con il sapiente gioco degli accenti Pascoli sperimenta cadenze ritmiche inedite, con una varietà inesauribile di modulazioni.
Il verso frantumato Anche il verso, come la struttura sintattica, è di regola frantumato al suo interno, interrotto da numerose pause, segnate dall’interpunzione, da incisi, parentesi, puntini di sospensione. La frantumazione del discorso è accentuata dal frequentissimo uso degli enjambements, che spezzano sintagmi strettamente uniti, quali soggetto-verbo, aggettivo-sostantivo. L’accordo con la tradizione in Pascoli è quindi, come suggerisce Contini, un «accordo eretico». Pascoli non fa esplodere l’universo linguistico tradizionale, come avverrà poi nelle avanguardie novecentesche (Futurismo, Surrealismo), ma, pur collocandosi ancora all’interno di determinati codici, li forza, li piega in direzioni assolutamente inedite.
Il linguaggio analogico Al livello delle figure retoriche, Pascoli usa largamente il linguaggio analogico. Il meccanismo è quello della metafora, la sostituzione del termine proprio con uno figurato, che ha col primo un rapporto di somiglianza. Ma l’analogia pascoliana, come quella dei simbolisti, non si accontenta di una somiglianza facilmente riconoscibile: accosta invece in modo impensato e sorprendente due realtà tra loro remote, eliminando per di più tutti i passaggi logici intermedi e identificando immediatamente gli estremi, costringendo così ad un volo vertiginoso dell’immaginazione. Ad esempio nella poesia Temporale, appartenente a Myricae, sullo sfondo nero del cielo temporalesco spicca la nota bianca di un casolare, che viene di colpo accostata al bianco di un’ala di gabbiano: «Tra il nero un casolare: / un’ala di gabbiano». Come si vede non ci sono passaggi intermedi, di tipo sintattico, che esplicitino il legame logico: il secondo termine è semplicemente dato come apposizione del primo. E un discorso fortemente ellittico, allusivo, che punta sul non detto e arriva quasi al limite dell’enigmatico, del cifrato.
La sinestesia Un procedimento affine all’analogia, ed egualmente caro al gusto simbolistico-decadente, è la sinestesia, che possiede del pari un’intensa carica allusiva e suggestiva, fondendo insieme, in un tutto indistinto, diversi ordini di sensazioni. Ad esempio, in questi versi di La mia sera: «Dormi! bisbigliano, Dormi! / là, voci di tenebra azzurra», la sensazione visiva e cromatica del cielo buio si fonde con una sensazione fonica, il colore diviene una voce. Così in Dall’argine gli strilli della calandra sono «tra l’azzurro penduli»: l’espressione tramuta la sensazione uditiva in sensazione visiva. Così ancora i «soffi di lampi» dell’Assiuolo trasformano la notazione visiva, i bagliori lontani dei lampi di calore, in notazione tattile o fonica, la luce crea l’impressione di un soffio. Affini al linguaggio analogico sono ancora espressioni come «nero di nubi» (sempre nell’Assiuolo), in cui avviene uno spostamento tra concreto e astratto: la formula normale dovrebbe essere «nubi nere», sostantivo concreto più aggettivo qualificativo; la qualità diviene invece un sostantivo («nero»), e a sua volta il concreto si trasforma in espressione qualificativa, equivalente ad un aggettivo («di nubi»). L’effetto è quello di una maggiore indefinitezza: la realtà corposa, materiale, sfuma in una notazione cromatica, con un effetto puramente suggestivo.
Pascoli e la poesia del Novecento Queste soluzioni formali, che introducono cospicue innovazioni nel linguaggio poetico italiano, aprono la strada alla poesia del Novecento. Avremo modo di trovare in tanti poeti successivi, in particolare negli ermetici, scelte espressive analoghe a quelle pascoliane: la sintassi spezzata ed ellittica, come equivalente di una crisi delle strutture logiche e gerarchiche del mondo, la sperimentazione di ritmi inediti, con la frantumazione del verso, la ricerca di un valore musicale della parola attraverso la riscoperta della sua sostanza fonica, l’uso di un linguaggio analogico ed evocativo, che conferisce alla parola echi e risonanze, creandole intorno un magico alone. Per questo si è potuto parlare di un Pascoli «verso il Novecento», come suona il titolo di un famoso saggio di Luciano Anceschi, o addirittura «dentro» il Novecento.
Postato il 7 febbraio 2011
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