23 febbraio 2011

Ma Einstein non era affatto un relativista

di Roberto Timossi
«Tutto è relativo!»: quante volte ci è capitato di sentire questa affermazione. In campo filosofico la si può far risalire addirittura ai sofisti dell’antica Grecia, principali ispiratori dell’idea che ogni singolo uomo è «misura di tutte le cose». Il termine «relativismo», tuttavia, entra nell’uso corrente all’inizio del XX secolo per designare la tesi secondo la quale tutte le conoscenze sono relative, ossia valide soltanto in relazione alla coscienza di ciascun individuo o di una specifica comunità. Ma la convinzione che non vi siano fondamenti sicuri o verità certe ha assunto maggiore consistenza nell’opinione pubblica dopo che Albert Einstein ha divulgato nel 1916 la teoria generale della relatività. A partire da tale data, è diventato quasi un luogo comune sostenere che tutto è relativo, nella convinzione abbastanza diffusa che le teorie einsteiniane abbiano fornito base scientifica al relativismo scettico. In realtà, paradossalmente non esiste nella scienza una teoria meno «relativa» della relatività e soltanto una superficiale cultura scientifica conduce a confonderla con il relativismo di chi riduce la verità a mera opinione. Tanto la teoria della relatività ristretta quanto quella della relatività generale non affermano infatti che non si possono conseguire dati certi sullo spazio-tempo, ma solo che le osservazioni e i fenomeni fisici sono relativi alle condizioni in cui si osservano, non già che variano col variare dello osservatore. In altre parole, relativi sono i punti di osservazione e non le osservazioni. Tant’è vero che, come lo stesso Einstein ebbe a sottolineare, la teoria della relatività avrebbe potuto benissimo essere meglio definita «teoria degli invarianti», perché con essa si descrive quanto in natura non varia mai (come ad esempio la velocità della luce) e ciò a prescindere dalla posizione di chi osserva i fenomeni. Se il relativismo conoscitivo non ha alcun fondamento scientifico, come invece molti vorrebbero farci credere, trova ancor meno una giustificazione razionale il relativismo etico. Ai nostri giorni non sembrano più esistere proprietà eticamente definite come il bene, la giustizia, la virtù e il dovere, ma ogni principio normativo del comportamento sia individuale sia collettivo nella migliore delle ipotesi viene ricondotto a scelte convenzionali societarie o di gruppo (il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia sono convenzioni, solitamente trascritte in codici legislativi) e nella peggiore rimesso all’arbitrio delle convinzioni del singolo individuo (ognuno decide in base a criteri soggettivi ciò che è bene e ciò che è male). A questo modo un’azione può essere moralmente giusta in un dato contesto storico­sociale e ingiusta in un altro, può essere considerata eticamente accettabile da una persona e immorale da un’altra persona. L’aborto, ad esempio, non è più in sé buono o cattivo, ma risulta tale in relazione alle coscienze dei singoli o alla morale culturalmente dominante. Gli effetti disastrosi del relativismo etico sono sotto gli occhi di tutti: produce lo sfaldamento del tessuto sociale e il prevalere dell’individualismo egoista, autentico cancro della nostra società. È indispensabile invertire questa tendenza che porta al collasso qualsiasi comunità umana avviando un processo di rigenerazione culturale, che faccia comprendere che in etica come in fisica c’è bisogno di «invarianti», di punti di riferimento stabili e non sottoposti ai mutevoli umori soggettivi.
«Avvenire» del 20 febbraio 2011

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