Un film di Peter Weir sulla brutalità dei lager staliniani
di Elena Molinari
Dopo il grande successo di «The Truman Show» e dell’epica navale di «Master and Commander», il regista australiano mette in scena la vicenda dei prigionieri rinchiusi in un campo della Siberia
Ha aspettato sette anni per dare al pubblico un nuovo film Peter Weir. Dopo l’epica navale di Master and Commander, con Russell Crowe, e varie false partenze, il regista australiano di The Truman Show è approdato a un lavoro di ancor più ampio respiro, al cui nucleo si potrebbe dire risiede lo stesso spirito umano e le sue illimitate risorse. The way back (in uscita in Italia nei prossimi mesi) racconta la drammatica fuga da un gulag sovietico di un soldato polacco con sei compagni di prigionia, ispirata all’autobiografia del 1956 di Slavomir Rawicz (Tra noi e la libertà).
Sebbene la veridicità della vicenda sia stata messa in dubbio, Weir ne ha tratto un ambizioso racconto di determinazione e solidarietà dalle note universali. L’assurdità dell’autoritarismo sovietico occupa le prime scene del film. Nel 1940, nella Polonia occupata dai russi, il protagonista, il soldato Janusz, viene infatti condannato per spionaggio sulla base di una confessione estorta alla moglie sotto tortura. La condanna è a 25 anni di campi di lavoro in Siberia, vicino al Circolo polare artico e appena vi arriva Janusz comincia a pensare di fuggire per poter ritrovare la moglie e perdonarla. Il ragazzo gravita quindi naturalmente verso altri cinque detenuti, cui l’accomuna la decisione primordiale di non morire nel campo. Del gulag il regista mostra in modo quasi documentaristico gli aspetti più proibitivi: i piedi piagati, le facce rotte dal freddo, la magrezza dei detenuti e la cinica brutalità delle guardie.
Barlumi di umanità emergono qua e là in modo quasi impressionistico, come, ad esempio, nella meraviglia infantile di alcuni incalliti criminali che pagano uno di loro - alcuni pezzi di pane - perché racconti quello che ricorda dell’Isola del tesoro di Stevenson. Fra le attività meglio remunerate del campo c’è anche la produzione di disegni e la vendita di consigli di sopravvivenza. Una volta che il gruppo si è formato, la quotidiana marcia nella neve per tagliare la legna nella foresta comincia ad essere accompagnata dalla cauta elaborazione di un piano.
Che è tanto elementare quanto disperatamente audace: i sei approfitteranno di una tormenta per fuggire. L’idea della crudeltà sovietica ritorna più tardi con un montaggio di immagini di occupazioni e imprigionamenti sovietici. Ma il tema politico recede sempre di più man mano che il gruppo si allontana dal gulag e comincia ad affrontare i suoi veri nemici: non le guardie del campo - che presto abbandonano la caccia - quanto il vento gelido, il ghiaccio, la notte e le tempeste della steppa siberiana. Il film è allora occupato interamente dal cammino per la sopravvivenza, che in un anno porta i protagonisti dalla Siberia alla Mongolia, poi attraverso la Grande muraglia cinese al deserto dei Gobi, quindi al Tibet e, finalmente, all’Himalaya che fa da porta d’ingresso all’India britannica e alla salvezza.
Un viaggio di 6500 chilometri, oltre 5 volte la lunghezza dell’Italia, durante il quale viene messa alla prova, oltre alla resistenza fisica dei membri del gruppo, anche la loro motivazione per la fuga e la loro stessa volontà di vivere. Ma dalle varie prove esce vincitrice l’idea di fondo di Weir: che ogni essere umano, se spinto all’estremo, farebbe qualsiasi cosa per sopravvivere. La forza di questo principio esistenziale a volte mette in secondo piano lo sviluppo individuale di ogni personaggio. I "grandi" temi che il regista tocca, insieme alle bellissime scene che catturano l’enormità del paesaggi, danno un taglio epico alla narrazione e sembrano prendere volutamente il posto dell’empatia per i singoli caratteri umani.
Che formano però un affresco convincente. I fuggiaschi partono in sette. C’è l’ex attore Khabarov (l’interprete è il rumeno Dragos Bucu), che nel gulag racconta ai suoi compagni storie, vere o immaginarie, di fughe rocambolesche da altri campi di prigionia, incitandone il desiderio di evasione. C’è un cinico, enigmatico americano, conosciuto solo come signor Smith (interpretato magistralmente da Ed Harris) che si scopre essere un operaio statunitense fuggito dalla Depressione per cercare lavoro in Russia. C’è un gangster russo di professione di nome Valka (Colin Farrell), che si unisce al gruppo per evitare la vendetta di altri mafiosi nel gulag con i quali ha debiti di gioco.
Lungo il cammino si unisce al gruppo un’orfana russa, Irena (Saoirse Ronan) che con una performance volutamente sottotono fa da contraltare alla brusca rudezza degli uomini. Il film ha avuto un’ottima accoglienza di critica e di pubblico negli Stati Uniti, anche se alcune recensioni hanno fatto notare che le storie personali dei personaggi non assumono un rilievo sufficiente a trainare la trama. Ma nessuno ha messo in dubbio la credibilità dei caratteri, né il valore della loro avventura. La quasi maniacale attenzione al dettaglio, inoltre, fa di The way back un magistrale esempio di narrazione vecchio stile, i cui elementi sono sapientemente combinati.
«Avvenire» del 20 febbraio 2011
Nessun commento:
Posta un commento