24 febbraio 2011

Se la vita diventa «disponibile» crolla il diritto

Il manifesto promosso da un quartetto di insigni docenti è una curiosa mescola fra desideri e impossibili giuridici Gestire in modo soggettivo la dignità nel vivere e nel morire non è dato agli uomini e tanto meno alle leggi
di Claudio Sartea
Autodeterminazione: così s’intitola l’appello proposto da poco alla sottoscrizione online dei cittadini da parte di un quartetto di giuristi del rango di Gilda Ferrando, Alessandro Pace, Pietro Rescigno e, naturalmente, Stefano Rodotà. Il sottotitolo è meno serioso, più sloganistico: «No alla cancellazione del diritto fondamentale alla autodeterminazione». Vediamo di che cosa si tratta. I diritti fondamentali sono quelli su cui è costruito un ordinamento, come sulle propria fondamenta. L’autodeterminazione – termine giuridico appartenente al diritto internazionale e relativo appunto al diritto all’autodeterminazione dei popoli, che ha storicamente legittimato le richieste di indipendenza delle ex colonie del Sud del mondo, e poi è stato applicato alla disgregazione dell’ex impero sovietico e in vari altri casi, fino alle rivolte nordafricane dei giorni nostri –, viene oggi sforzata perché possa costituire un riferimento tecnico al servizio delle libertà individuali. Fin qui, niente di male davvero: la libertà costituisce uno dei valori chiave per la riflessione antropologica, è una parola ricchissima che custodisce buona parte del mistero dell’uomo e del diritto. La proposta del quartetto di giuristi è pero più ambiziosa: intende utilizzare questo termine d’importazione, come grimaldello per scassinare uno dei – pochi, tutto sommato – principi cardine di ogni ordinamento giuridico: quello dell’indisponibilità della vita umana. La vita biologica di ognuno di noi è indisponibile: è cioè sottratta anzitutto alle pretese altrui (la punizione dell’omicidio così come di ogni offesa all’integrità fisica è antica quanto il diritto), ma è anche sottratta, nel suo livello radicale che riguarda le decisioni di riceverla e toglierla, anche al singolo vivente. igettare questa constatazione, che oscilla, come tutto il diritto, tra la sfera dell’essere e quella del dover essere, ma non per questo perde credibilità, implica l’abiura ad uno dei valori davvero «fondamentali»: lo scopo stesso dell’ordinamento giuridico, a cui almeno questo dovremmo poter chiedere, proteggere e promuovere primariamente la vita (per poi magari, messa al sicuro la cosa essenziale, attrezzarsi al fine di proteggere e promuovere le libertà che ne derivano e la caratterizzano ordinariamente – ma non essenzialmente: si pensi alla fase della vita nascente, a cui tutti abbiamo appartenuto, alla patologie gravi e invalidanti, a cui molti prima o poi andiamo incontro, agli handicap ed alle deficienze psichiche). Bell’affare faremmo a sottoscrivere un contratto sociale che ci assicura in modo efficientissimo i trasporti pubblici, ma non si cura della nostra sopravvivenza; o che differenzia scrupolosamente la raccolta dei rifiuti, per riciclare e rispettare la biosfera, ma non impone regole e misure di salvaguardia della vita degli umani che popolano questa biosfera, dall’obbligo delle cinture di sicurezza e del casco, fino alla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (che non è negoziabile dietro accordo tra datore e prestatore di lavoro, e non riguarda dunque beni «disponibili»). Quella proposta dal quartetto di insigni giuristi è una curiosa mescola di bei desideri e di impossibili giuridici. A tutti piacerebbe «governare la propria vita» e gestire soggettivamente «la dignità nel vivere e nel morire»: ma non è dato agli uomini, e tanto meno al diritto umano, di poterlo fare davvero.
Il testo di legge in discussione alla Camera susciterà molte discussioni, e diverse di esse avranno probabilmente una caratura elevata, come capitò in Senato. È un testo umano, certamente perfettibile. Verrà modificato, magari dalle sentenze costituzionali. Genera varie perplessità, non c’è dubbio. È però ingeneroso affermare che esso sia «ingannevole», «ideologico», «autoritario». Non inganna, perché l’alleanza terapeutica viene per la prima volta menzionata in un testo legale e, almeno fino ad un certo punto, viene correttamente presentata. È meno ingannevole additare come chiave per la svolta giurisdizionale sul diritto di autodeterminazione una breve sentenza costituzionale sul consenso informato, che il 15 dicembre 2008 ha dichiarato una legge regionale piemontese incompatibile con l’articolo 32 perché sottraeva alla legislazione nazionale la regolazione del ricorso a sostanze psicotrope nella cura di patologie psichiatriche infantili?
Quanto all’ideologia, occorrerebbe dimostrare dove sta la verità: ma per farlo non basta riferirsi ad «ormai consolidati diritti», che per di più (come quello al rifiuto o sospensione delle cure) non mettono per forza in discussione il principio d’indisponibilità bensì riguardano specificamente la relazione clinica e il divieto, questo sì costituzionale e comprensibile, di trattamenti sanitari obbligatori. Quanto infine alla natura autoritaria del testo, potremmo osservare che l’autorità senza verità, che ci ricorda tanto Hobbes, primo grande teorico dello statalismo, è se mai quella proposta da chi sostiene che ha la prevalenza «la volontà individuale» rispetto ai «legittimi punti di vista»: che, in altri termini, in un discorso di ragione deve paradossalmente prevalere la volontà sulle buone ragioni.
Ammesso, ma non concesso, che un simile argomento possa funzionare, nel nome della tolleranza e del quieto vivere, quando parliamo di relazioni intersoggettive, ci vuole troppa «ambizione» per proporlo in sede pubblica, al momento di discutere in modo democraticamente maturo sulla fine della vita umana e su una legge da cui tutti dovrebbero potersi sentire tutelati.
«Avvenire» del 24 febbraio 2011

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