17 febbraio 2011

Analisi di Pascoli, La digitale purpurea

di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria
(tratto da Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, vol. 3/1 D’Annunzio e Pascoli, pp. 152-154)

La donna bionda e la donna bruna. In apertura del componimento si delineano due figure femminili in antitesi, che si caricano di sensi simbolici: la fanciulla bionda, dalle vesti semplici e dallo sguardo modesto, è un'immagine di innocenza verginale, quella bruna, dagli occhi «ch'ardono», è immagine di una sensualità torbida e inquieta. Gli occhi ardenti soprattutto sono un particolare denso di significato: nella letteratura ottocentesca sono sempre indizio inequivocabile di qualcosa di misterioso e di sinistro, sono attributo demoniaco e testimoniano la disposizione luciferina di chi è pronto a sfidare e a infrangere divieti, a tentare esperienze trasgressive e profanatone (si pensi allo «sguardo di fuoco» dell'eroe byroniano). L'indizio sarà puntualmente confermato dal seguito del racconto, in cui Rachele, spinta dalla sua irrequietudine sensuale, farà appunto l'esperienza insidiosa del proibito. La contrapposizione simbolica tra donna bionda e donna bruna, donna "angelo" e donna "demonio", è un motivo ricorrente nella letteratura romantica e decadente, ridotto persino a luogo comune nella produzione di consumo. Pascoli qui lo riprende in chiave personale, caricandolo di una problematica complessa, che si connette con i nuclei più profondi della sua ispirazione.

L'innocenza e il fiore perverso. L'antitesi tra le due fanciulle, in quanto simboli rispettivamente di innocenza e di inquieta perversione, propone subito all'inizio l'opposizione tematica che percorre tutto il poemetto. Seguiamo rapidamente il suo dispiegarsi lungo l'asse sintagmatico del racconto. Nella prima delle tre sezioni il dialogo tra le due amiche rievoca l'atmosfera del convento e della loro fanciullezza, creando un clima di innocenza, candore e soavità. I particolari che lo connotano sono innanzitutto la nota di bianco riferita alle suore («le mie bianche suore») e l'insistenza sull'aggettivo «dolci» («i dolci anni», «quei piccoli anni così dolci...»). Quello del candore conventuale è un motivo che proviene a Pascoli dal decadentismo più languido ed estenuato (Jammes, Maeterlinck), e di lì a pochi anni, nel primo decennio del Novecento, sarà poi caro ai crepuscolari. A questa atmosfera rimanda anche 1'«orto chiuso», col suo carattere gelosamente verginale, che esclude il mondo esterno. Ma proprio in questo giardino, tra piante comuni ed innocenti, si profila nel ricordo delle fanciulle il fiore misterioso e inquietante, il «fior di morte» (e si noti che a pronunciare la parola «morte», che le labbra della fanciulla bionda non osano proferire, è proprio la bruna). Al clima verginale si contrappone la presenza perversa del fiore velenoso, col suo profumo insidioso che inebria l'aria intorno e bagna l'anima «d'un oblìo dolce e crudele».
Nella seconda sezione, attraverso un flash-back, il passato lontano nel ricordo si materializza nel presente. Anche qui inizialmente si ripropone l'atmosfera di innocenza già preannunciata dalle «bianche» suore: gli elementi che la costituiscono sono la purezza del cielo sereno primaverile, le litanie, l'incenso, il biancore delle educande che invade tutto il giardino, il «libro buono» che le fanciulle leggono. Ma in tutto quel candore, tanto insistito da apparire quasi lezioso, cova come un segreto fermento. Lo preannuncia la formula «sentor d'innocenza e di mistero», con i due sostantivi a contrasto, e lo conferma l'episodio del colloquio in parlatorio, che rivela le inquietudini erotiche delle educande, tanto più intense quanto più inconsapevoli, che inducono a mescolare ambiguamente sacro e profano (il coro delle fanciulle eccitate intona più forte 1'Ave Maria). Di nuovo, nella parte finale, in opposizione alla sanità fisica e morale delle fanciulle («agili e sane») si profila l'immagine del fiore venefico e del suo fascino inquietante. Il fiore si precisa nelle sue forme mostruose, ripugnanti, quasi macabre (le «dita spruzzolate di sangue, dita umane»). L'innocenza non è in realtà sicura e intangibile, su di essa incombe un'insidia misteriosa.
In apertura della terza sezione, nell'intimità affettuosa tra le due compagne, accomunate dalla dolcezza dei ricordi, torna il motivo dell'innocenza. Ma per la terza volta il clima di candore verginale è rotto dalla comparsa del motivo perverso del fiore, che qui si accampa ad occupare quasi tutto lo spazio narrativo. Al momento del congedo, Rachele confessa all'amica il segreto che urge al fondo del suo animo, l'esperienza da lei fatta del fiore proibito. Si ha un nuovo flash-back che fa rivivere il passato, ma l'atmosfera è ora diversa: non più il candore del convento, ma un clima sospeso, percorso da segrete inquietudini e da aspettative arcane, pervaso da una snervata, estenuata mollezza. La trasgressione della fanciulla ha come sfondo una natura tempestosa, sconvolta come da un «turbamento cosmico» (Bàrberi Squarotti). Ad essa si intona lo stato d'animo della fanciulla che sta per compiere il gesto trasgressivo: ciò che la spinge a tentare l'esperienza proibita di assaporare il profumo del fiore velenoso è il «languido fermento» lasciato nel suo animo da un sogno erotico «che notturno arse», uno stimolo rimasto inconsapevole nell'«ignara anima», e per questo più eccitato e morboso.

Il significato del «fior di morte». Il racconto di Rachele si chiude su un'immagine misteriosa, il destino di morte scaturito dalla dolcezza indicibile di quell'esperienza. Pascoli qui gioca volutamente sul non detto, sull'indefinito, sull'ambiguo, sull'allusivo. Intorno a questa conclusione del poemetto si sono accumulate molte ipotesi interpretative. Particolarmente suggestiva appare quella di Getto, secondo il quale l'assaporamento, da parte di Rachele, del profumo vietato ha un valore simbolico, anticipatore di tante analoghe esperienze future compiute dalla fanciulla, e nel ricordo viene a riassumere tutte le altre. Tali esperienze, secondo il critico, possono essere una passione amorosa che conduce alla morte, ma forse anche una malattia mortale, «voluttuosamente accolta e covata», «morbosamente goduta come mezzo di distruzione e avvio al mistero della morte». È un'ipotesi suggestiva, che consuona con la sensibilità decadente in generale, affascinata dalla malattia e dalla morte, e con quella di Pascoli in particolare. Ma non si possono escludere diverse ipotesi proposte da altri interpreti (Chimenz, Bàrberi Squarotti): esperienze di tossicomania, intese decadentisticamente come mezzo per attingere all'ignoto, ma anche l'esperienza erotica, trasformatasi in vizio che corrompe, che consuma le forze e porta alla malattia e alla morte. Comunque, anche accettando queste interpretazioni, la proposta di Getto resta valida: l'assaporamento del fiore velenoso e del suo profumo ha un valore simbolico, è la prima trasgressione che nel ricordo accomuna in sé tutte quelle successive, per diverse che siano. Dopo aver passato in rassegna queste ipotesi, tuttavia, il voler poi precisare ad ogni costo è forse sbagliato: Pascoli ha volutamente lasciato nell'indefinito la conclusione, proprio per caricarla di sensi misteriosi e perciò più suggestivi. Basta quindi pensare in termini vaghi ad un'esperienza di trasgressione, di voluttuoso assaporamento del proibito, che induce all'autodistruzione e alla morte, senza chiedersi altro, per rispettare il senso intimo della poesia.
Il motivo del fiore velenoso, carico di un fascino inebriante e perverso che attira e porta all'annientamento, è squisitamente decadente, e ricorre di frequente, in varie forme, nella letteratura di fine Ottocento. Come ha ben visto Getto, la digitale purpurea pascoliana è «il fiore forse più corrotto fra quanti [...] produsse, dal seme dei fiori del male, il nostro decadentismo», e rivela in Pascoli una «curiosità rivolta alle esperienze più avvelenate della letteratura europea». Il poemetto quindi è estremamente significativo di tutto un aspetto della poesia pascoliana, torbido, malato, decadentemente perverso, che è l'altra faccia, quella in ombra ma senz'altro più autentica, del candore fanciullesco e della trepida contemplazione delle piccole cose.

La tecnica narrativa e il linguaggio. L'inquietante tematica della poesia trova riscontro in moduli espressivi altrettanto inquieti. Pascoli usa innanzitutto una tecnica narrativa fortemente ellittica. La narrazione comincia in media res: all'aprirsi del componimento il dialogo tra le fanciulle è già cominciato, e il lettore lo coglie da metà, senza essere preventivamente informato sulle due interlocutrici, sulle circostanze del colloquio, sugli antefatti remoti e prossimi, sull'argomento del discorso. Il testo ha inizio con un verbo, «siedono», di cui non conosciamo il soggetto. Così non ci è noto l'oggetto delle prime battute («E mai non ci tornasti?», «Non le vedesti più?») . Apprendiamo l'essenziale a poco a poco, dallo svolgersi successivo del dialogo. Questa tecnica ellittica è evidentemente funzionale al clima sospeso, di mistero e di ambiguità, che il poeta vuole creare nel poemetto.
Colpisce poi l'attenzione del lettore la frantumazione dell'asse sintagmatico del racconto, che non segue la successione cronologica lineare, ma è continuamente spezzato da anacronie: comincia al presente (un presente del tutto indeterminato, come si è appena visto), fa rivivere il passato come un flash-back, torna al presente del colloquio fra le due amiche, per risalire infine al passato con la rievocazione dell'esperienza trasgressiva del fiore velenoso. L'andamento tortuoso del tempo narrativo mette in rilievo il carattere ambiguo del reale rappresentato, in cui l'innocenza si oppone apparentemente alla perversione, ma reca già al suo interno qualcosa di languido ed eccitato insieme, che anticipa e richiama l'esperienza morbosa del proibito.
Anche la struttura sintattica e metrica è intimamente frantumata, discontinua. Le frasi sono brevi e spezzano sistematicamente il discorso in unità a sé stanti. Intervengono poi, a sminuzzare ulteriormente il tessuto discorsivo, puntini di sospensione («così dolci al cuore...», «fior di ...», (tastiere appena appena tocche ...», «piangete ...», «vedi ...», «con un suo lungo brivido ...»), e parentesi: «(perché mai?)», «(l'una sa dell'altra al muto premere)», sino alla lunga parentesi, di quasi tre versi, che nella chiusa allontana con una forte sospensione la confessione suprema, «si muore!». I versi sono continuamente interrotti al loro interno da forti pause, come si può cogliere sin dall'incipit: «Siedono. L'una guarda l'altra. L'una / esile e bionda». A ciò si uniscono i frequentissimi enjambements, di regola duramente inarcati. Taluni hanno un intenso valore espressivo, perché sottolineano le pause del discorso più cariche di sospensione e di mistero: «fior di ...?» / «morte», dove viene isolata e posta in piena evidenza la parola chiave «morte» (un procedimento analogo si ha nel finale dove, come si è visto, la formula «si muore!» è isolata dalla lunga parentesi che la precede) . L'altro enjambement particolarmente significativo si ha nel momento culminante della confessione della fanciulla bruna, «"Io," // mormora, "sì: sentii quel fiore"»: l'effetto di sospensione, che mette in evidenza la parte cruciale della frase, è accentuato dal fatto che viene scavalcata non solo la fine del verso, ma addirittura della terzina, e dall'ulteriore inserzione della didascalia «mormora».
Come si è già avuto modo di osservare, un discorso poetico in cui la sintassi sia gerarchicamente organizzata e la struttura metrica sia fluida e continua rivela che si ha del reale una visione sicura e precisa, che si crede in un mondo ordinato, dove i rapporti tra l'io e le cose e delle cose fra loro sono ben definiti e saldi (a riprova, si pensi alla sintassi ricca di subordinate degli scrittori classici); un discorso poetico invece in cui la sintassi e la struttura metrica siano frantumate e discontinue, fatte di unità pressoché isolate fra di loro, fa intuire una visione del reale problematica, incerta, ambigua, che presuppone una profonda crisi dei moduli ordinatori dell'esperienza. La successione spezzata del discorso poetico di Pascoli è quindi l'indizio più rivelatore di come egli sia interprete della grande crisi delle visioni del mondo verificatasi a cavallo fra Otto e Novecento. E la sua sintassi poetica è rivoluzionaria non solo, come si è verificato, nella misura lirica breve e concentrata (Myricae), ma anche nel modulo più ampio del poemetto narrativo.

Postato il 17 febbraio 2011

1 commento:

Unknown ha detto...

Bella la poesia di Pascoli, anche se fortemente legata ad un contesto storico culturale ben determinato: altre liriche pascoliane mantengono ancor oggi intatta la forza del loro messaggio, a differenza di "digitale purpurea".
Bello e ben fatto anche il commento.
Elisabetta