di A. R. Guerriero - N. Palmieri - E. Lugarini, Prisma. Vol. 3 - La letteratura del Seicento, La Nuova Italia, pp. 98-99
Come funziona il meccanismo metaforico
Casco d’oro è il titolo di un famoso film francese. Se possediamo solo questa informazione, possiamo supporre che il titolo faccia riferimento a un casco militare o da motociclista realizzato in oro, e possiamo arguire che il film tratti di una vicenda d’awentura o sportiva.
Se invece sappiamo che il film è interpretato da una splendida attrice bionda, Simone Signoret, possiamo intuire che «casco d’oro» si riferisce alla foggia e al colore dei capelli della donna e che il suo ruolo sarà fondamentale nella trama. Se poi abbiamo anche delle conoscenze letterarie, possiamo riconoscere la permanenza di uno stilema ricorrente, quello dei capelli biondi, e se andiamo spesso al cinema sappiamo che a una donna bionda corrisponde spesso il cliché della femme fatale. D’altro canto, spingendo ancora oltre la nostra intuizione, potremmo vedere che «oro» rimanda anche all’idea di ricchezza, di avidità, o magari di difficoltà di procurarsi denaro, mentre «casco» ci fa pensare a una pettinatura inconsueta, testimonianza di spregiudicatezza e di indipendenza femminile. In effetti, il film racconta la storia di una giovane donna parigina, contesa tra due uomini nell’ambiente bohémiene malavitoso di una Parigi di maniera nei primi anni del nostro secolo.
Naturalmente ci saremo anche resi conto, a questo punto, di trovarci di fronte a una metafora e avremo anche intuito che quest’espressione ha messo rapidamente in gioco la nostra “enciclopedia mentale”, costringendoci, in qualche misura, a stabilire collegamenti e relazioni tra concetti.
Il linguaggio figurato
Prima di analizzare la metafora nel contesto delle figure retoriche, possiamo osservare, già dall’esempio proposto, che il linguaggio figurato (quello, cioè, che si avvale dì spostamenti di senso per ottenere particolari effetti) è frequente non solo in poesia, ma anche in altre forme di comunicazione, fra le quali quelle quotidiane; fra l’altro, per la sua sinteticità e per le sue caratteristiche fortemente evocative, trova largo impiego nella pubblicità. Comunque, dal punto di vista stilistico, il linguaggio letterario è in genere caratterizzato da un alto tasso di figuralità. Fecendo riferimento a categorie della linguistica, diremo inoltre che il linguaggio letterario, di per sé polisemico, è caratterizzato, per lo più, da una prevalenza del livello connotativo rispetto a quello denotativo. Con denotazione intendiamo «il primo e più elementare livello semantico del segno», mentre con connotazione intendiamo «un valore supplementare, allusivo, evocativo, affettivo del segno» (A. Marchese, Dizionario di retorica e stilistica, Milano, Mondadori, 1991, pp. 63, 73).
La metafora e gli altri tropi
Come già sappiamo, la metafora, che è probabilmente il più importante dei tropi, cioè delle figure di sostituzione semantica, è un paragone abbreviato: invece di dire «capelli biondi come l’oro», diciamo «capelli d’oro». Quindi la metafora, in questo caso, si realizza mediante la sostituzione di «biondo» con «oro». i due termini messi in gioco nel meccanismo di sostituzione della metafora vengono definiti figurante e figurato.
Affine alla metafora è la metonimia, una figura semantica in cui la sostituzione tra figurato e figurante avviene sfruttando un rapporto di contiguità o relazione logica tra i due. Sono quindi metonimie le sostituzioni di questo tipo: la causa per l’effetto, l’effetto per la causa, la materia per l’oggetto, il contenente per il contenuto, l’astratto per il concreto e viceversa, l’autore al posto dell’opera; sono esempi di metonimia «bicchiere» per «vino», «legno» per «nave», «Manzoni» per I promessi sposi, «fegato» per «coraggio», «carte» per «studio» o «lavoro intellettuale».
La sineddoche si realizza secondo lo stesso meccanismo, ma il rapporto è di tipo spaziale e riguarda la maggiore o minore estensione. Sono sineddochi le sostituzioni della parte per il tutto e viceversa («vela» per «nave»), dell’iperonimo per l’iponimo (cioè, del termine generale per quello particolare, ad esempio «felino» per «gatto», «lavoratore» per «operaio») e viceversa («pane» per «cibo»), del singolare per il plurale e viceversa.
Pertanto, la differenza sostanziale tra metafora e metonimia e sineddoche è relativa ai campi semantici coinvolti dalla figura. Ricordiamo che per campo semantico si intende l’insieme di termini riconducibili a un concetto-etichetta (sono campi semantici, ad esempio, la bellezza, la navigazione ...). Ebbene, la metafora mette in gioco due campi semantici differenti, mentre nelle altre due figure considerate la sostituzione avviene all’interno dello stesso campo semantico. Ad esempio, «capelli biondi» appartiene a un campo semantico diverso da quello di «oro», mentre la sineddoche «vela» per «nave» si attua nell’ambito del medesimo campo semantico.
Metafora e metonimia hanno una speciale rilevanza fra le figure semantiche; gli studi recenti di Eco, Marchese, Henry propendono in effetti per una derivazione degli altri tropi da queste due figure: i simboli codificati quali «azzurro» per «cielo», «olivo» per «pace», «corona» per «regalità», le perifrasi quali «il Creatore del, cielo e della terra» per «Dio», l’allusione, ad esempio «arriveranno per te le Idi di marzo» per «la tua fine», l’antonomasia ad esempio «vuoi fare il Cesare» per «dittatore» hanno un’origine metonimica, mentre l’iperbole, del tipo «Luigi è un fulmine», spesso trae origine da una metafora.
La metafora e il concettismo
Nel corso del Seicento, le poetiche dominanti, marinismo, gongorismo, eufuismo, preziosismo sono riconducibili, seppur con delle distinzioni, al concettismo. Con questo termine si intende l’ampio uso di concetti (o arguzie, o acutezze), cioè nessi imprevedibili fra una o più immagini contrapposte. Il concetto si configura, quindi, come una categoria ampia che comprende la metafora e gli altri tropi. Ricordiamo che la capacità di produrre l’inedito accostamento di senso che dà origine al concetto si chiama in italiano «ingegno» o «arguzia»; il nome di questa capacità (e dei concetti da essa prodotti) è agudeza in spagnolo, preciosité in francese, wit in inglese.
La metafora, l’analogia, il correlativo oggettivo: dai poeti barocchi ai novecenteschi
Federico García Lorca, uno dei più famosi e irrequieti poeti spagnoli del nostro secolo, afferma a proposito dell’atto poetico che accanto alla forza dell’ispirazione si colloca il mestiere, la padronanza delle tecniche del poeta. Se è vero, quindi, che la poesia è frutto sia dell’intuizione lirica, come direbbe Croce, o dell’ispirazione, con termine da temperie romantica, sia del ricorso a piene mani agli “attrezzi”, ai “ferri del mestiere” propri del poeta, e quindi a tutti gli artifici retorici, metrici, lessicali, è anche vero che in taluni momenti alcuni di questi artifici sembrano dominare e prendere il sopravvento sugli altri. Ciò evidentemente non accade solo per motivi estetici. Ad esempio, nel corso del Medioevo la poesia è dominata dall’allegoria: non si tratta certo solo di una scelta estetica, ma di una scelta implicitamente legata alle concezioni, al modo di sentire, alla cultura degli uomini medievali. Allo stesso modo, la metafora è la figura dominante nella poesia e nella prosa secentesca. II nostro secolo, infine, ha visto crescere una poesia talvolta oscura, sempre allusiva ed evocatrice. Tali effetti sono stati conseguiti con un ampio ricorso alla metafora (si pensi a versi quali «il mare in certi giorni / è un giardino fiorito» di Cardarelli) e a tutte le figure che abbiamo visto connesse alla metafora. Ma, come ha rilevato Anceschi (Le poetiche del barocco, Bologna, Alfa, s.d.), sono l’emblema e l’analogia a farla da padrone nella lirica del nostro secolo. Analizziamo il verso iniziale di una famosa poesia di Montale: «Non recidere forbice quel volto»; dalla sola lettura di questo verso potremmo anche essere autorizzati a ritenere che la «forbice» sia reale e «quel volto» sia metonimia di una fotografia: in realtà, leggendo tutta la poesia, ci rendiamo conto che «forbice» è metafora del tempo, che rischia di dissolvere l’immagine amata, e che tutta la lirica è caratterizzata da uno scivolamento di senso, non sempre esplicito, in questa direzione semantica. Questo scivolamento di senso è proprio dell’analogia.
Potremmo dire (operando una forte generalizzazione) che la poesia del Novecento è caratterizzata dall’esigenza di spingere e di piegare la parola fino ai limiti estremi per esprimere un’emozione in qualche misura inesprimibile, per trovare, in altri termini, «le parole per dirlo». A tale esigenza risponde anche la poetica del correlativo oggettivo riscontrabile in molti autori novecenteschi; fra questi è, ad esempio, Thomas S. Eliot, figura di spicco che ha influenzato anche il nostro Montale; in un suo scritto teorico troviamo una chiara definizione di che cosa si debba intendere per «correlativo oggettivo»: «la sola maniera di esprimere l’emozione nella forma dell’arte sta nel trovare una obiettività correlativa: in altre parole, una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi, che sarà la formula di quell’emozione particolare; cosicché, quando siano dati i fatti esterni, che devon concludersi in un’esperienza sensibile, l’emozione sia immediatamente richiamata» (T.S. Eliot, Il bosco sacro, Milano, Bompiani, 1971, p. 135).
L’allegoria medievale, la metafora barocca, l’analogia novecentesca, al di là dell’elemento comune di spostamento semantico che le caratterizza, testimoniano atteggiamenti e modi di sentire diversissimi: la prima riflette un mondo tutto proteso al trascendente e interessato a trovare nell’esperienza lo specchio della realtà soprannaturale; la seconda si configura come la risposta alle inquietudini di un mondo sospeso tra passato e modernità, tra irrazionalismo e razionalismo, tra realtà e teatralità; la terza è la manifestazione della crisi contemporanea, tanto grande e profonda che le parole spesso non riescono a esprimerla in tutta la sua portata.
Postato l'8 febbraio 2011
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