di Giuliano Ferrara
Ho l'onore di conoscere il presidente Napolitano da molti anni. Quand'ero adolescente, venne a Roma da Napoli come capo della sezione culturale del Partito comunista. Era stimato fin da allora per la sua pignoleria e per il suo aplomb istituzionale. L'intellighenzia borghese del Pci, che era piuttosto sorniona nonostante il suo plumbeo stalinismo togliattiano, lo chiamava «il Prefetto» e ridacchiava della sua somiglianza con Umberto II. Lui tirava diritto, freddo e flemmatico com'è.
Nessuna storia personale è senza macchia, nessuna carriera senza errori, ma Napolitano è il tipo ideale del galantuomo meridionale. Quando Berlusconi vinse a sorpresa le drammatiche elezioni del 1994, l'allora capogruppo del maggior partito di opposizione tenne alla Camera un discorso aperto e responsabile, freddo in mezzo alle passioni scatenate. Il Cav. scese dal banco del governo, attraversò l'emiciclo e gli strinse la mano, gesto significativo e poco protocollare. Fece sensazione. Qualche tempo dopo proposi al presidente del Consiglio di mandare Napolitano a Bruxelles come commissario europeo, insieme con Mario Monti. Se ne discusse seriamente, eravamo arrivati al punto, ma alla fine quel magnifico tipaccio di Cesare Previti irruppe in una riunione di ministri, a Palazzo Chigi, e con impeto da centurione disse rombante la sua: «Napolitano no». «Perché?», domandai. «Perché è comunista», fu la sua risposta. Chiusa lì. Andò la Bonino, che non ho mai capito bene che cosa sia.
Cesarone sbagliava. Il peccato originale di Napolitano non è il suo comunismo all'italiana, che è ovviamente anche parte di una tragedia mondiale da me condivisa in gioventù, ma l'articolo 68 della Costituzione. Tra il febbraio e l'ottobre del 1993, anno del Grande Terrore giustizialista, quando l'uso barbarico della carcerazione preventiva assicurò alla galera un certo numero di ladri, ma distrusse con ferocia selettiva (i sommersi e i salvati si conoscono) le basi della Repubblica costituzionale, Napolitano contribuì da presidente della Camera allo smantellamento coatto di un pilastro della politica democratica, garanzia della divisione dei poteri. I padri costituenti avevano scritto queste parole: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale».
I padri, gente del calibro di Moro, Togliatti, La Malfa, Nenni, Andreotti, Terracini, Dossetti, Meuccio Ruini, De Gasperi e molti altri che potrei citare, non erano stupidi. Sapevano che questo scudo non avrebbe soltanto difeso i parlamentari dall'inquisizione e dal pregiudizio politico, ma potenzialmente anche da curiosità inerenti i loro comportamenti, privati e pubblici, segnati dall'illegalità. Tuttavia vollero che quelle parole così esplicite fossero iscritte nella Carta fondamentale, perché la politica può essere sporca, meschina, truffaldina, ma niente è più sporco, meschino e truffaldino della giustizia politica, dell'uso politico della giustizia. L'articolo 68 fu cancellato in un Paese stremato dalla delusione per il cattivo uso dell'immunità da parte delle Camere, e inferocito oltre ogni misura di misericordia e di equilibrio contro i responsabili di un declino del prestigio e della salute delle istituzioni, ma le conseguenze di quella decisione, presa sotto la ferula dei magistrati d'assalto, che si preparavano a correre per il potere candidandosi e formando nuovi partiti, sono state disastrose.
Da quasi vent'anni il Paese non respira più, vive in una perpetua apnea giudiziaria. Che voti per Berlusconi (...)
(...) o per Prodi, i governi dipendono dal comportamento dell'ordine giudiziario trasformatosi in potere autonomo e insindacabile in mano a una minoranza attivistica. Reggono o cadono, i governi eletti dal popolo, a seconda della loro forza di resistenza all'iniziativa blindata di alcuni magistrati che affettano di credere in una missione purificatrice di sradicamento del male, ma stringono nel loro mirino il «nemico assoluto» che secondo loro ha corrotto il popolo, intendono correggere o annichilire il giudizio sovrano degli italiani sulla politica. Questa missione reazionaria, codina, antidemocratica, che ha un costo inaudito per l'economia e per la pace civile, è assolta in forme militanti, passando da una indagine a un talk show dei più facinorosi, da una sentenza a una pressione vociferante e intimidente sul legislatore, sbaraccando lo stato di diritto, la privacy dei cittadini, mettendo in discussione tutto e minacciando tutti con la sola riserva, quando gli riesce, di selezionare gli avversari e risparmiarne alcuni, pur sempre ammonendoli e impaurendoli, allo scopo di ottenerne l'appoggio politico.
Il presidente della Repubblica è politicamente irresponsabile, ma della Costituzione è custode. Questa non è una questione costituzionale, non riguarda i sondaggi e la volubilità dell'opinione pubblica, la lotta tra i partiti. Questo passaggio lo riguarda direttamente, perché riguarda il tradimento consumato di una Carta in nome della quale si celebrano centocinquant'anni di Italia unita. Napolitano può dare un grande contributo di persuasione morale e di intelligenza critica alla storia di questo Paese, entrandovi a pieno diritto come un galantuomo al di sopra delle parti: predicare apertamente, a vent'anni dal tradimento, la necessità di ripristinare il testo mutilato della legge fondamentale dello Stato, e del suo principio cardinale di divisione dei poteri.
Nessuna storia personale è senza macchia, nessuna carriera senza errori, ma Napolitano è il tipo ideale del galantuomo meridionale. Quando Berlusconi vinse a sorpresa le drammatiche elezioni del 1994, l'allora capogruppo del maggior partito di opposizione tenne alla Camera un discorso aperto e responsabile, freddo in mezzo alle passioni scatenate. Il Cav. scese dal banco del governo, attraversò l'emiciclo e gli strinse la mano, gesto significativo e poco protocollare. Fece sensazione. Qualche tempo dopo proposi al presidente del Consiglio di mandare Napolitano a Bruxelles come commissario europeo, insieme con Mario Monti. Se ne discusse seriamente, eravamo arrivati al punto, ma alla fine quel magnifico tipaccio di Cesare Previti irruppe in una riunione di ministri, a Palazzo Chigi, e con impeto da centurione disse rombante la sua: «Napolitano no». «Perché?», domandai. «Perché è comunista», fu la sua risposta. Chiusa lì. Andò la Bonino, che non ho mai capito bene che cosa sia.
Cesarone sbagliava. Il peccato originale di Napolitano non è il suo comunismo all'italiana, che è ovviamente anche parte di una tragedia mondiale da me condivisa in gioventù, ma l'articolo 68 della Costituzione. Tra il febbraio e l'ottobre del 1993, anno del Grande Terrore giustizialista, quando l'uso barbarico della carcerazione preventiva assicurò alla galera un certo numero di ladri, ma distrusse con ferocia selettiva (i sommersi e i salvati si conoscono) le basi della Repubblica costituzionale, Napolitano contribuì da presidente della Camera allo smantellamento coatto di un pilastro della politica democratica, garanzia della divisione dei poteri. I padri costituenti avevano scritto queste parole: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale».
I padri, gente del calibro di Moro, Togliatti, La Malfa, Nenni, Andreotti, Terracini, Dossetti, Meuccio Ruini, De Gasperi e molti altri che potrei citare, non erano stupidi. Sapevano che questo scudo non avrebbe soltanto difeso i parlamentari dall'inquisizione e dal pregiudizio politico, ma potenzialmente anche da curiosità inerenti i loro comportamenti, privati e pubblici, segnati dall'illegalità. Tuttavia vollero che quelle parole così esplicite fossero iscritte nella Carta fondamentale, perché la politica può essere sporca, meschina, truffaldina, ma niente è più sporco, meschino e truffaldino della giustizia politica, dell'uso politico della giustizia. L'articolo 68 fu cancellato in un Paese stremato dalla delusione per il cattivo uso dell'immunità da parte delle Camere, e inferocito oltre ogni misura di misericordia e di equilibrio contro i responsabili di un declino del prestigio e della salute delle istituzioni, ma le conseguenze di quella decisione, presa sotto la ferula dei magistrati d'assalto, che si preparavano a correre per il potere candidandosi e formando nuovi partiti, sono state disastrose.
Da quasi vent'anni il Paese non respira più, vive in una perpetua apnea giudiziaria. Che voti per Berlusconi (...)
(...) o per Prodi, i governi dipendono dal comportamento dell'ordine giudiziario trasformatosi in potere autonomo e insindacabile in mano a una minoranza attivistica. Reggono o cadono, i governi eletti dal popolo, a seconda della loro forza di resistenza all'iniziativa blindata di alcuni magistrati che affettano di credere in una missione purificatrice di sradicamento del male, ma stringono nel loro mirino il «nemico assoluto» che secondo loro ha corrotto il popolo, intendono correggere o annichilire il giudizio sovrano degli italiani sulla politica. Questa missione reazionaria, codina, antidemocratica, che ha un costo inaudito per l'economia e per la pace civile, è assolta in forme militanti, passando da una indagine a un talk show dei più facinorosi, da una sentenza a una pressione vociferante e intimidente sul legislatore, sbaraccando lo stato di diritto, la privacy dei cittadini, mettendo in discussione tutto e minacciando tutti con la sola riserva, quando gli riesce, di selezionare gli avversari e risparmiarne alcuni, pur sempre ammonendoli e impaurendoli, allo scopo di ottenerne l'appoggio politico.
Il presidente della Repubblica è politicamente irresponsabile, ma della Costituzione è custode. Questa non è una questione costituzionale, non riguarda i sondaggi e la volubilità dell'opinione pubblica, la lotta tra i partiti. Questo passaggio lo riguarda direttamente, perché riguarda il tradimento consumato di una Carta in nome della quale si celebrano centocinquant'anni di Italia unita. Napolitano può dare un grande contributo di persuasione morale e di intelligenza critica alla storia di questo Paese, entrandovi a pieno diritto come un galantuomo al di sopra delle parti: predicare apertamente, a vent'anni dal tradimento, la necessità di ripristinare il testo mutilato della legge fondamentale dello Stato, e del suo principio cardinale di divisione dei poteri.
«Il Giornale» del 27 febbraio 2011
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