di Cesare Segre
Che «i Siciliani» abbiano costituito la prima scuola poetica italiana è nozione comune, convalidata anche dall’opinione di Dante, che nel suo geniale trattato De vulgari eloquentia ricorda la funzione fondativa di questa Scuola. Eppure, sembra incredibile, chi avesse voluto prendere agevolmente contatto con questi poeti doveva sinora ricorrere ad antologie, come quella preparata da Gianfranco Contini per i Poeti del Duecento (1960). Una raccolta completa dei 337 testi, filologicamente accertata, commentata minuziosamente, l’abbiamo solo ora, ed è un avvenimento. Parlo dei tre volumi, di oltre 3600 pagine complessive, appena usciti nei «Meridiani» Mondadori (I poeti della Scuola siciliana. Edizione promossa dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani). Essi costituiscono certo il culmine, dal punto di vista della complessità organizzativa e dell’impegno filologico, raggiunto, grazie a Renata Colorni, da quella collana già normalmente di alto livello. Ognuno dei volumi esce sotto la responsabilità e con l’introduzione di un filologo (Roberto Antonelli, Costanzo Di Girolamo, Rosario Coluccia, rispettivamente delle università di Roma, Napoli e Lecce); e mentre i testi del primo volume sono tutti curati dal responsabile, per gli altri due il lavoro è stato fatto in équipe, da una dozzina di curatori. Per chi s’interessi della nostra letteratura, sarà avvincente ripercorrere nelle introduzioni l’elaborazione in Provenza (all’alba del XII secolo), di una concezione e di un galateo dell’amore, cui diedero parole e musica i trovatori, mettendo a punto una prosodia e una metrica raffinate. La poesia trobadorica fu entusiasticamente imitata in varie lingue, dal francese al tedesco al galego-portoghese. Si pone sulla stessa scia la Scuola siciliana, con caratteristiche condizionate dalla sua origine. Fu infatti Federico II di Svevia, re di Sicilia e poi imperatore, a promuovere questo movimento poetico, così come aveva fatto, un secolo prima di lui, il duca Guglielmo IX d’Aquitania per la Provenza. Ma Federico, poeta lui stesso (ce ne rimangono cinque canzoni), invece che a giullari e menestrelli, si rivolse soprattutto ai suoi funzionari: così, molti dei suoi poeti si dichiaravano notai, e anzi il primo e più fecondo e più famoso, Giacomo da Lentini, è indicato di solito come «il notaro». Siamo intorno al 1230; nel 1250 Federico muore. Antonelli, curatore appunto del volume I, che contiene le poesie di Giacomo, mentre quelle degli altri Siciliani stanno nel secondo, valuta molto originalmente le «quotazioni» e i riconoscimenti di eccellenza di lui e dei compagni e di singoli componimenti, in base all’ordine con cui le poesie sono state riportate nel principale codice che ce le trasmette, il manoscritto 3793 della Biblioteca Vaticana, messo insieme ai primi del Trecento, a Firenze, con attenzione ai valori e alle precedenze. Va comunque sottolineata la funzione determinante, per la conoscenza di questa poesia, della toscanizzazione cui questi testi, scritti in un siciliano nobilitato da latinismi e gallicismi, furono sottoposti. Con vantaggio dei lettori, che non avrebbero potuto comprendere facilmente il dialetto di origine. Ed è interessante constatare, con Antonelli, la maturazione di concezioni e canoni diversi attraverso la poesia dei poco più giovani poeti toscani, e le valutazioni di Dante. Quanto al canone, esso culmina dapprima con Monte Andrea e con un altro caposcuola, Guittone d’Arezzo; poi, svalutati Guittone e i suoi seguaci, con Guinizzelli, con Dante e con gli stilnovisti. In pochi anni, il gusto poetico ebbe due svolte decisive. E l’avventura letteraria iniziata con i Siciliani continuerà almeno sino a Petrarca e ai petrarchisti del Cinquecento. Giacomo da Lentini elabora in modo molto personale le idee dei trovatori, e infatti avrà amichevoli dispute con altri poeti; nel contempo maneggia con sapienza gli schemi metrici provenzali, e soprattutto inventa una forma metrica che rimarrà viva sino ad oggi, il sonetto, accolto anche in altre letterature europee. La sua tenacia nell’approfondire i problemi dell’amore, sempre sulla linea dei trovatori (e talora le sue poesie traducono o rifanno canzoni provenzali) è condivisa dai suoi colleghi siciliani; e cesserà solo quando questa poesia, trasferita in Toscana, sarà messa in parte al servizio di una polemica politica, specchio degli antagonismi dei comuni ormai autonomi. Sia chiaro comunque che sarebbe ingenuo cercare in tanti discorsi d’amore i segni di vicende vissute: come e più che i trovatori, i poeti siciliani descrivono gioie e pene d’amore con atteggiamento quasi sperimentale. Nessuna monotonia comunque, dato che questi poeti alternano forme illustri e toni giullareschi (Cielo d’Alcamo), atteggiamenti controllati e attitudini popolaresche, come accade nelle poesie a voce femminile di Rinaldo d’Aquino e di Giacomino Pugliese. Dominiamo dunque, o quasi, tutta la storia di quella scuola. Ma che cosa c’era in precedenza? A parte alcuni testi arcaici, tra i quali domina il «Cantico delle creature» di san Francesco (1224?), il primo a scrivere versi in una parlata italiana fu un trovatore provenzale, Raimbaut de Vaqueiras (fine sec. XII), che in due suoi componimenti popolareggianti inserisce strofe in un dialetto sostanzialmente ligure. Ma recentemente sono venuti fuori frammenti che documentano l’esistenza nel Nord, diciamo tra Ravenna e Piacenza, di una poesia di tipo cortese nei primi anni del Duecento, dunque poco prima, o contemporaneamente, alla Scuola siciliana. Sono primi riflessi di testi siciliani anteriori a quelli noti? O invece sono tracce di un movimento autoctono, e sempre di stampo provenzale, rimasto latente? Di questo parla Di Girolamo, nell’introduzione al volume II, notando anche il fatto che gran parte di questi testi portano pure le indicazioni musicali, mentre i grandi canzonieri, come il Vaticano, di musica non hanno tracce. Segno, dice Di Girolamo, che questa tradizione sino a poco fa sconosciuta mantiene il nesso parole-musica proprio dei provenzali, mentre (forse) i Siciliani lo abbandonarono, più o meno nettamente. Infine, Coluccia, introducendo il volume III, che contiene tutti i poeti toscani che seguirono lingua e stile della Scuola, si domanda se la scoperta di testi cortesi settentrionali con tratti siciliani non confermi l’ipotesi di una linea di diffusione «adriatica», attraverso la Puglia, diversa da quella, sinora nota, che collega, attraverso il meridione peninsulare, Sicilia e Toscana. Così, proprio al momento di sistemare questo grande episodio poetico, vien fatto d’interrogarsi sui suoi precedenti e sull’ambiente culturale che li ha elaborati. Sinora le proposte restano vaghe; speriamo in altre scoperte. In cambio, per la Scuola siciliana, abbiamo adesso questo strumento completo, agevole e informato, con bibliografie, indici dei capoversi, persino indici delle derivazioni da un poeta a un altro. Mettiamoci alla lettura, o al lavoro.
I tre volumi, in edizione promossa dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani e in libreria nei prossimi giorni, oltre a Jacopo da Lentini (cui è dedicato il primo volume) includono tra gli altri Piero dalla Vigna e Cielo D’Alcamo nel secondo; Brunetto Latini e Compagnetto da Prato nel terzo
I volumi «I poeti della Scuola siciliana» escono in 3 volumi nei Meridiani Mondadori ( 55). Il primo, «Giacomo da Lentini», è firmato da R. Antonelli (pp. 896); il secondo, «Poeti della corte di Federico II», da C. Di Girolamo (pp. 1.118); il terzo, «Poeti siculo -toscani», da R. Coluccia (pp. 1.264)
I tre volumi, in edizione promossa dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani e in libreria nei prossimi giorni, oltre a Jacopo da Lentini (cui è dedicato il primo volume) includono tra gli altri Piero dalla Vigna e Cielo D’Alcamo nel secondo; Brunetto Latini e Compagnetto da Prato nel terzo
I volumi «I poeti della Scuola siciliana» escono in 3 volumi nei Meridiani Mondadori ( 55). Il primo, «Giacomo da Lentini», è firmato da R. Antonelli (pp. 896); il secondo, «Poeti della corte di Federico II», da C. Di Girolamo (pp. 1.118); il terzo, «Poeti siculo -toscani», da R. Coluccia (pp. 1.264)
« Corriere della Sera » del 24 giugno 2008
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