Per non dimenticare un volume raccoglie le voci di quanti hanno perso i loro familiari nei tragici anni di piombo
di Diego Andreatta
Giovanni Bachelet: «La memoria non può essere condivisa, l’unica cosa che può essere condivisa è la storia».
Finora la storia degli anni di piombo era stata scritta sempre da altri. Dopo l’istituzione del «Giorno della memoria», molti familiari delle vittime del terrorismo cominciano a dare voce a quelle «sedie vuote», simbolo dell’assenza irreparabile dei loro cari. «Ora sono stati incoraggiati a riprendere la parola, a far sentire com’era giusto la loro voce» constatava con soddisfazione il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il 9 maggio scorso nella seconda giornata dedicata alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice. In quell’occasione sono risuonati in Quirinale i ricordi commossi di figli, mariti e mogli raccolti da Alberto Conci, Paolo Grigolli e Natalina Mosna nel volume Sedie vuote da un gruppo di studenti trentini aiutati dai loro docenti «a leggere la storia a partire dalla sofferenza delle vittime per coglierne aspetti altrimenti trascurati». Nell’originale libro collettivo l’amarezza per la ricostruzione 'romantica' degli anni di piombo da parte di tanti ex più o meno pentiti, affiora con sofferenza nei dieci intensi dialoghi che il gruppo di liceali e universitari ha intessuto con i parenti di Luigi Calabresi, Walter Tobagi, Graziano Giralucci, Livia Bottardi, Domenico Ricci, Aldo Moro, Giuletta Banzi, Vittorio Bachelet, Annamaria Bosio, Carlo e Luca Mauri, Guido Rossa. Se è vero che «la memoria è sempre uno strumento imperfetto», come scrisse Primo Levi, i familiari lamentano una rimozione colpevole. «Per anni sono entrato nelle librerie a cercare negli scaffali i libri dedicati agli anni Settanta – osserva Mario Calabresi, figlio del compianto commissionario Luigi e oggi direttore de La Stampa – e ad un certo punto mi è stato chiaro non solo che mancava una storia complessiva di quegli anni, ma che addirittura era presente un solo punto di vista, quello di chi aveva scelto la lotta armata». Proprio dal volume di Calabresi Spingendo la notte più in là è partita la ricerca dei ragazzi trentini, condotta in tante domeniche nello studio di vicende a loro sconosciute e nell’esame di testimonianze di brigatisti sui media: «Ma un’intervista con una persona che ha scelto deliberatamente di uccidere non può avere una funzione assolutoria, deve aiutare a capire la negatività del gesto», osserva critico Giovanni Bachelet, figlio del vicepresidente del Csm Vittorio, che sottolinea poi una distinzione sostanziale appresa da Pietro Scoppola: «La memoria non può essere condivisa, l’unica cosa che può essere condivisa è la storia. Ognuno si porta dentro qualcosa, ma la memoria del singolo non diventa automaticamente storia proprio perché non è condivisa: i parenti di una vittima ricordano una cosa, il figlio di un brigatista ne ricorda un’altra». Le voci registrate da Sedie vuote aggiungono a questa storia «da condividere» elementi in alcuni casi inediti, fanno emergere i nomi delle vittime dal freddo elenco di un monumento (da piazza della Loggia alla stazione di Bologna), restituendo loro invece i caldi lineamenti di un’umanità anche casalinga. Sabina Rossa, parlando di suo padre (il sindacalista Guido) testimonia «la dolcezza con cui al ritorno dal lavoro si fermava a giocare con i bambini in strada» mentre Benedetta Tobagi si riconosce nei gusti del padre Walter, al quale piaceva il mare d’inverno «quando è tutto vuoto e senti le voci delle persone camminando sulla spiaggia». Agnese Moro ha recuperato da una lettera del padre Aldo ad un allievo la determinazione di «riuscire a credere di avere un dovere da compiere nella gioia come nell’amarezza» e quindi l’idea che «ogni persona, con il suo agire, è decisiva nella vita di un Paese».
Uomini semplici da ricordare come persone, prima che vittime. Sono dieci incisivi quadri di relazioni profonde, troppo presto recise, quelli che i familiari con le loro risposte – ma anche con i silenzi, gli aneddoti, le foto d’epoca – hanno offerto agli studenti trentini testimoniando «il loro desiderio di superare il dolore, la volontà di ricostruire e di riaffermare la vita», come osservano i curatori del volume. Fra i temi ancora attuali come il rapporto fra violenza e riformismo, il ruolo della pena, l’impegno delle associazioni delle vittime, risalta la dialettica sofferta tra giustizia e perdono, che tutti gli intervistati – anche qui con sfumature diverse – riconducono a due dimensioni diverse: quella personale e quella sociale. «Il perdono cristiano è qualcosa di intimo che ognuno di noi sente dentro – spiega Giovanni Ricci, figlio della guardia del corpo di Moro, Domenico Ricci – ma sono convinto che il perdono rispetto a quello che è successo possa passare solo attraverso la verità». «Non sono una di quelle persone che negano il diritto di chi ha sbagliato di rifarsi una vita – osserva Silvia Giralucci, figlia di Graziano – Anche se sono usciti dal carcere, la loro responsabilità rimane. Non si diventa ex assassini, semplicemente perché io non divento un’ex orfana. Il mio papà non torna». Affermazioni macerate negli anni, utili anche a curare quella «sindrome del figliol prodigo», (citata da Manlio Milani, rimasto vedovo dopo piazza della Loggia) che negli anni scorsi ha spesso trasformato i brigatisti in star e oscurato le vittime e i loro familiari, testimoni di splendidi esempi morali (e cristiani): «È stato un errore clamoroso – afferma nel suo contributo il giudice Gian Carlo Caselli – perché i conti con il passato si fanno anche dicendo ciascuno al suo posto, ciascuno si ricordi che cosa è stato».
Alberto Conci, Paolo Grigolli e Natalina Mosna (a cura di), Sedie vuote, Editrice Il Margine, pp. 344, € 17,00
Uomini semplici da ricordare come persone, prima che vittime. Sono dieci incisivi quadri di relazioni profonde, troppo presto recise, quelli che i familiari con le loro risposte – ma anche con i silenzi, gli aneddoti, le foto d’epoca – hanno offerto agli studenti trentini testimoniando «il loro desiderio di superare il dolore, la volontà di ricostruire e di riaffermare la vita», come osservano i curatori del volume. Fra i temi ancora attuali come il rapporto fra violenza e riformismo, il ruolo della pena, l’impegno delle associazioni delle vittime, risalta la dialettica sofferta tra giustizia e perdono, che tutti gli intervistati – anche qui con sfumature diverse – riconducono a due dimensioni diverse: quella personale e quella sociale. «Il perdono cristiano è qualcosa di intimo che ognuno di noi sente dentro – spiega Giovanni Ricci, figlio della guardia del corpo di Moro, Domenico Ricci – ma sono convinto che il perdono rispetto a quello che è successo possa passare solo attraverso la verità». «Non sono una di quelle persone che negano il diritto di chi ha sbagliato di rifarsi una vita – osserva Silvia Giralucci, figlia di Graziano – Anche se sono usciti dal carcere, la loro responsabilità rimane. Non si diventa ex assassini, semplicemente perché io non divento un’ex orfana. Il mio papà non torna». Affermazioni macerate negli anni, utili anche a curare quella «sindrome del figliol prodigo», (citata da Manlio Milani, rimasto vedovo dopo piazza della Loggia) che negli anni scorsi ha spesso trasformato i brigatisti in star e oscurato le vittime e i loro familiari, testimoni di splendidi esempi morali (e cristiani): «È stato un errore clamoroso – afferma nel suo contributo il giudice Gian Carlo Caselli – perché i conti con il passato si fanno anche dicendo ciascuno al suo posto, ciascuno si ricordi che cosa è stato».
Alberto Conci, Paolo Grigolli e Natalina Mosna (a cura di), Sedie vuote, Editrice Il Margine, pp. 344, € 17,00
«Avvenire» del 5 settembre 2009
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