La deriva dell’informazione italiana e l’imbarbarimento della polemica giornalistica: l’analisi del massmediologo Aldo Grasso
di Edoardo Castagna
«La stampa che vediamo in questi ultimi tempi è stampa da tempo di guerra: ogni conflitto è sempre anche mediatico, e si confonde con la propaganda». Per Aldo Grasso, docente di Teoria e forme delle televisione alla Cattolica di Milano e critico televisivo del Corriere della sera, la sconcertante escalation di attacchi personali sempre più violenti apparsi negli ultimi mesi sulla stampa italiana e culminato nei giorni scorsi con l’aggressione mediatica a Dino Boffo è il risultato della somma complessa di più fattori. Ne viene fuori uno scenario bellico, nel quale «diventa molto difficile capire che cosa stia succedendo. Una volta, i buoni libri di comunicazione insegnavano che una delle possibilità di resistenza critica ai media consisteva nel mettere l’uno contro l’altro i messaggi che riceviamo, secondo l’aureo precetto del sentire sempre due campane. Ma nell’attuale situazione di guerra anche questa semplice verifica è diventata impossibile, perché si sa già che l’uno dirà sempre, pavlovianamente, bianco, e l’altro dirà sempre, pavlovianamente, nero».
Il pettegolezzo, il regno della stampa scandalistica, ha travalicato i confini e ha invaso ogni media? «È già da anni che i mezzi d’informazione tendono a eliminare ogni differenza tra pubblico e privato. Il fenomeno coinvolge l’intera strut- tura dei media, dalla televisione generalista alle più moderne tecnologie: i fatti di retroscena sono diventati altrettanto importanti di quelli sulla scena, per ragioni di audience – non serve fare gli ipocriti, sono proprio gli aspetti morbosi, 'proibiti', quelli che attraggono di più il pubblico. E il primo a essere colpito è stato un presidente del Consiglio che è al tempo stesso il più grande imprenditore mediatico italiano. Ora, che i potenti abbiano storie di letto non è certo una novità: ma era sempre esistita una sorta di convenzione per far sì che eventuali vizi privati non interferissero con le pubbliche virtù, come mostra il caso esemplare dei Kennedy. Ma ora in Italia la situazione è andata fuori controllo: un settimanale come Chi diretto da Alfonso Signorini, che si è sempre occupato dei retroscena sulle attrici e del chi sta con chi, è improvvisamente diventato un organo di informazione politica... Il metodo che si applicava alle veline è stato trasferito su persone che avrebbero dovuto avere tutto il diritto a essere giudicate per quello che fanno e per quello che scrivono in pubblico, e non certo per la loro vita privata ».
Ma in Italia i quotidiani non sono sempre stati lontani da questo genere, proprio dei settimanali? «E invece sono entrati nella stessa logica. Si tratta dell’infausto modello proprio della televisione generalista: con la scusa che ti stai rivolgendo a tutti, hai l’alibi di poterti occupare di tutto. Della realtà come del pettegolezzo. In guerra è molto difficile tenersi equidistanti, perché da un momento all’altro può arrivarti una granata sulla testa e tu non sai neanche a chi dire grazie. Un po’ di silenzio farebbe bene a tutti noi: ma è molto difficile, almeno fino a quando non ci sarà una nuova stagione politica, con la voglia di occuparsi di fatti concreti. Una comunità sociale è fatta anche di sogni, quella cosa che serve per uscire dalla contingenza in cui uno si trova e immaginare un futuro; il dramma è che in Italia non si sogna più, e invece si cerca di sfregiare l’avversario».
Per questo l’obiettivo dei colpi non sono mai fatti, ma persone nella loro individualità? «Anche la personalizzazione è un retaggio della televisione, dove le idee non valgono nulla e contano soltanto coloro che le incarnano. Il primo errore, in questo senso, è stato l’ossessione berlusconiana, con la lotta ideologica e politica trasformata in lotta personale».
Ma i vari media – televisione, quotidiani, settimanali rosa, internet – non dovrebbero avere ognuno una propria specificità? «Negli ultimi anni abbiamo assistito a una grande rivoluzione. Un tempo l’informazione era verticale: nei giornali e nei telegiornali c’era sempre una gerarchia delle notizie, con un’agenda che assegnava a ogni cosa più o meno rilievo. L’avvento della Rete ha invece reso ogni comunicazione di tipo orizzontale: siamo tutti sullo stesso piano, per cui il ponderato parere dell’illustre papirologo vale il giudizio del primo studentello che ce l’ha in antipatia».
Tuttavia, in Italia le battaglie sono state combattute sui quotidiani... «Da un punto di vista tecnico questo mostra due cose. Primo, che il nostro giornalismo conferma una tradizione storica molto lontana dall’indipendenza: come sempre, si mette la cavezza dove il padrone vuole. Secondo, nella stampa c’è molta autoreferenzialità, con lotte interne tra giornali e tra giornalisti, invidie, regolamenti di conti… D’altra parte, quando si è saputo che Feltri era stato richiamato a dirigere Il Giornale con compensi straordinari, cifre totalmente fuori dal mercato italiano, tutti nel mondo giornalistico si sono chiesti: che cosa sta per succedere?»
Non si vede nessuna via d’uscita? Magari la stanchezza del pubblico? «Io non sono molto ottimista. Quando si imboccano queste strade, quando la lotta viene personalizzata e si punta solo al discreto individuale, allora deve succedere qualcosa di davvero inaspettato per uscirne. Difficile invocare il famoso passo indietro, se tutti o quasi scrivono con la bava alla bocca… ormai la belva è scatenata: e quando fiuta il sangue, tirarla via è impossibile ».
Il pettegolezzo, il regno della stampa scandalistica, ha travalicato i confini e ha invaso ogni media? «È già da anni che i mezzi d’informazione tendono a eliminare ogni differenza tra pubblico e privato. Il fenomeno coinvolge l’intera strut- tura dei media, dalla televisione generalista alle più moderne tecnologie: i fatti di retroscena sono diventati altrettanto importanti di quelli sulla scena, per ragioni di audience – non serve fare gli ipocriti, sono proprio gli aspetti morbosi, 'proibiti', quelli che attraggono di più il pubblico. E il primo a essere colpito è stato un presidente del Consiglio che è al tempo stesso il più grande imprenditore mediatico italiano. Ora, che i potenti abbiano storie di letto non è certo una novità: ma era sempre esistita una sorta di convenzione per far sì che eventuali vizi privati non interferissero con le pubbliche virtù, come mostra il caso esemplare dei Kennedy. Ma ora in Italia la situazione è andata fuori controllo: un settimanale come Chi diretto da Alfonso Signorini, che si è sempre occupato dei retroscena sulle attrici e del chi sta con chi, è improvvisamente diventato un organo di informazione politica... Il metodo che si applicava alle veline è stato trasferito su persone che avrebbero dovuto avere tutto il diritto a essere giudicate per quello che fanno e per quello che scrivono in pubblico, e non certo per la loro vita privata ».
Ma in Italia i quotidiani non sono sempre stati lontani da questo genere, proprio dei settimanali? «E invece sono entrati nella stessa logica. Si tratta dell’infausto modello proprio della televisione generalista: con la scusa che ti stai rivolgendo a tutti, hai l’alibi di poterti occupare di tutto. Della realtà come del pettegolezzo. In guerra è molto difficile tenersi equidistanti, perché da un momento all’altro può arrivarti una granata sulla testa e tu non sai neanche a chi dire grazie. Un po’ di silenzio farebbe bene a tutti noi: ma è molto difficile, almeno fino a quando non ci sarà una nuova stagione politica, con la voglia di occuparsi di fatti concreti. Una comunità sociale è fatta anche di sogni, quella cosa che serve per uscire dalla contingenza in cui uno si trova e immaginare un futuro; il dramma è che in Italia non si sogna più, e invece si cerca di sfregiare l’avversario».
Per questo l’obiettivo dei colpi non sono mai fatti, ma persone nella loro individualità? «Anche la personalizzazione è un retaggio della televisione, dove le idee non valgono nulla e contano soltanto coloro che le incarnano. Il primo errore, in questo senso, è stato l’ossessione berlusconiana, con la lotta ideologica e politica trasformata in lotta personale».
Ma i vari media – televisione, quotidiani, settimanali rosa, internet – non dovrebbero avere ognuno una propria specificità? «Negli ultimi anni abbiamo assistito a una grande rivoluzione. Un tempo l’informazione era verticale: nei giornali e nei telegiornali c’era sempre una gerarchia delle notizie, con un’agenda che assegnava a ogni cosa più o meno rilievo. L’avvento della Rete ha invece reso ogni comunicazione di tipo orizzontale: siamo tutti sullo stesso piano, per cui il ponderato parere dell’illustre papirologo vale il giudizio del primo studentello che ce l’ha in antipatia».
Tuttavia, in Italia le battaglie sono state combattute sui quotidiani... «Da un punto di vista tecnico questo mostra due cose. Primo, che il nostro giornalismo conferma una tradizione storica molto lontana dall’indipendenza: come sempre, si mette la cavezza dove il padrone vuole. Secondo, nella stampa c’è molta autoreferenzialità, con lotte interne tra giornali e tra giornalisti, invidie, regolamenti di conti… D’altra parte, quando si è saputo che Feltri era stato richiamato a dirigere Il Giornale con compensi straordinari, cifre totalmente fuori dal mercato italiano, tutti nel mondo giornalistico si sono chiesti: che cosa sta per succedere?»
Non si vede nessuna via d’uscita? Magari la stanchezza del pubblico? «Io non sono molto ottimista. Quando si imboccano queste strade, quando la lotta viene personalizzata e si punta solo al discreto individuale, allora deve succedere qualcosa di davvero inaspettato per uscirne. Difficile invocare il famoso passo indietro, se tutti o quasi scrivono con la bava alla bocca… ormai la belva è scatenata: e quando fiuta il sangue, tirarla via è impossibile ».
«Avvenire» dell'9 settembre 2009
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