Marinetti, Papini, Prezzolini: accesero il secolo di idee. Spente dal conformismo del Dopoguerra
di Marcello Veneziani
Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione di Marcello Veneziani ad Anni incendiari. 1909-1919: il decennio che sconvolse l’arte e il pensiero, la storia e la vita (Vallecchi, pagg. 210, euro 14; in libreria da domani): un’antologia di scritti che testimonia l’esplosione di creatività nel nostro Paese all’inizio del secolo. Il libro ha un’ampia introduzione di Veneziani. Per un inspiegabile disguido in casa editrice alcuni testi scelti non sono citati nella loro edizione originale, come aveva fatto il curatore, ma in edizioni successive e a volte minori.
Nell’arco breve del primo Novecento, sull’orlo entusiasta della modernità, divampò uno straordinario incendio nell’arte e nella letteratura, nel pensiero e nelle ideologie, che presto si propagò nella vita dei popoli e nella storia mondiale. Superato l’umor lieve della belle époque, smaltiti i fatui ninnoli del salotto di Nonna Speranza e spenti gli ultimi lasciti dell’Ottocento, ma finiti anche gli euforici balli Excelsior in onore della modernità e della tecnica trionfante, una corrente elettrizza la società e contagia in breve tempo tutte le forme espressive, fino a diventare movimento di massa. Il suo epicentro è l’Italia, l’asse tra Firenze e Milano in particolare; ma si apre un’officina destinata a infuocare tutto il Novecento e il pianeta. Come definire quel periodo breve e intenso di cui si avvertirono gli effetti e si scontarono le conseguenze per tutto il Novecento e anche oltre? Anni incendiari, direi.
Uso la parola incendio non a caso. Si potrebbe far la storia di quegli anni, dico la storia dell’arte, della letteratura ma anche la storia civile, avendo come filo conduttore i titoli di libri, i proclami, i discorsi, perfino le testate di riviste, che alludono alla fiamma, al fuoco, all’incendio, all’ardere, al bruciare. È il fuoco la metafora e insieme l’allegoria più viva di uno stato d’animo e di una situazione. Il sogno di un futuro nuovo fiammante dopo aver messo a ferro e fuoco il passato e il presente; le utopie fiammeggianti, i falò di libri e di cose antiche, la linea del fuoco nelle trincee, le focose passioni erotiche e politiche, il sacro fuoco dell’ispirazione, la fiamma come simbolo dei combattenti, le fiaccolate, le sigarette accese e penzolanti dalle labbra per il riposo del guerriero...
Il precursore di questa piromania artistico-letteraria fu d’Annunzio che aveva scritto Il fuoco, e che all’ardere e agli arditi, alle fiamme, le fiaccole e le faville, aveva dedicato pagine, poesie, discorsi e fiumi di parole. Ma alla scintilla si era rifatto pure Lenin battezzando così il suo giornale - Iskra - che precede la rivoluzione russa; e tutta la modernità sembrava nascere dal fuoco, messa a fuoco, punto focale: lenti, lastre, dinamo, bombe, bengala, fotografie, flash col botto, ciminiere, fuochisti, pietre focaie, motori a scoppio...
Il fuoco come illuminazione, come ardore, come purificazione del mondo, il fuoco come espressione di un’ispirazione artistica, una passione storica, una promessa di rinnovamento. A giudicare da alcuni effetti tragici di quella passione focosa si può forse dire che in quegli anni cercarono un paradiso fiammeggiante, ma non s’accorsero che col fuoco si propizia l’avvento dell’inferno. Le fiamme sono di casa lì, più che in paradiso. Si addicono ai dannati più che ai beati.
Non fu tanto l’esordio del nuovo secolo a generare questo choc, i primissimi anni dopo lo scoccare del ’900, quanto il decennio che ne seguì, dopo l’ebbrezza per le scoperte scientifiche e lo sgomento per il piccolo mondo antico che finiva. Ma fu solo dopo i primi anni, quando esplose nel febbraio del 1909 il futurismo che una miccia si accese e raggiunse presto i serbatoi di una società vogliosa di scatenare gli assoluti in terra, tramite l’arte, il pensiero, la parola, e poi la lotta, la guerra e la rivoluzione. Gli assoluti terrestri, direbbe Popper, ovvero i paradisi in terra.
Impensabile ai nostri occhi smagati del presente, quel clima e quella sete di assoluto riversata nell’arte, nella vita e nella storia. Ma impensabile anche la precoce età di quei protagonisti, ragazzi quasi tutti sotto i trent’anni come non vediamo ormai da un pezzo. Il secolo della giovinezza, cominciato allora, a cavallo delle rivoluzioni e delle guerre, dopo il Sessantotto finì negli anni di piombo. Uscita da quel tunnel, la storia andò all’ospizio e trionfò de senectute, una società grigia, anziana. La gioventù s’allarga, l’età media si allunga, spariscono i giovani, depositari d’avvenire.
Quel decennio non fu solo un laboratorio degli anni che verranno, ma fu anche il cimitero del futuro, l’arco in cui si bruciarono in anticipo sulla vita e sulla storia del secolo i serbatoi di speranza e i sogni d’avvenire che si spargeranno poi in tutto il Novecento. L’uomo nuovo, il mondo nuovo e l’ordine nuovo nacquero in quegli anni e il secolo che ne seguì fu l’apoteosi e l’agonia di quel novismo, il suo trionfo e la sua catastrofe.
«E vengano dunque, gli allegri incendiari dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia date fuoco agli scaffali delle biblioteche». È il primo fuoco appiccato in quel decennio: fu il Manifesto del Futurismo, di F. T. Marinetti.
A Milano presso le edizioni di Poesia di Marinetti, Aldo Palazzeschi, allora futurista, pubblica nel 1910 L’Incendiario, raccolta irriverente di poesie che mettono a ferro e fuoco il mondo anche se si aprono con l’apologia del maremoto, che a così breve distanza dalla tragedia di Messina e Reggio Calabria, era davvero una pessima ironia. Ma il suo non è il titolo di un libro, piuttosto è l’incipit di un’epoca, il programma di un generazione. «Uomini che avete orrore del fuoco, / poveri esseri di paglia!» scrive Palazzeschi che si definisce «povero incendiario mancato, incendiario da poesia. Ogni verso che scrivo è un incendio». «Sali o carbone, in fiammeggianti pire» gli fa eco un altro poeta futurista, Luciano Folgore nel Canto dei Motori del 1912, che è tutto un elogio del carbone e della combustione.
Prima del futurismo altri piromani avevano cominciato ad incendiare la letteratura italiana: Papini, Soffici e Prezzolini già dagli albori del Novecento si erano cimentati nell’impresa; ma in quegli anni produssero con libri, riviste e massacri, gli effetti visibili del loro talento focoso. Altri più densi incendi si appiccheranno nella poesia italiana con il Poeta pazzo, Dino Campana e i suoi sconvolgenti Canti Orfici usciti nel 1914. Fu un vero incendio nella letteratura, e per uno strano gioco del destino la prima edizione di quella raccolta, naturalmente poco compresa, finì in larga parte in un falò per riscaldare i soldati inglesi sull’appennino durante la guerra. Un falò, forse il primo rogo librario del Novecento, ma degna conclusione di un libro sulfureo, dedicato ad Orfeo. Un libro incendiario, che fece una fine adeguata, vorrei dire omeopatica.
Nell’arco breve del primo Novecento, sull’orlo entusiasta della modernità, divampò uno straordinario incendio nell’arte e nella letteratura, nel pensiero e nelle ideologie, che presto si propagò nella vita dei popoli e nella storia mondiale. Superato l’umor lieve della belle époque, smaltiti i fatui ninnoli del salotto di Nonna Speranza e spenti gli ultimi lasciti dell’Ottocento, ma finiti anche gli euforici balli Excelsior in onore della modernità e della tecnica trionfante, una corrente elettrizza la società e contagia in breve tempo tutte le forme espressive, fino a diventare movimento di massa. Il suo epicentro è l’Italia, l’asse tra Firenze e Milano in particolare; ma si apre un’officina destinata a infuocare tutto il Novecento e il pianeta. Come definire quel periodo breve e intenso di cui si avvertirono gli effetti e si scontarono le conseguenze per tutto il Novecento e anche oltre? Anni incendiari, direi.
Uso la parola incendio non a caso. Si potrebbe far la storia di quegli anni, dico la storia dell’arte, della letteratura ma anche la storia civile, avendo come filo conduttore i titoli di libri, i proclami, i discorsi, perfino le testate di riviste, che alludono alla fiamma, al fuoco, all’incendio, all’ardere, al bruciare. È il fuoco la metafora e insieme l’allegoria più viva di uno stato d’animo e di una situazione. Il sogno di un futuro nuovo fiammante dopo aver messo a ferro e fuoco il passato e il presente; le utopie fiammeggianti, i falò di libri e di cose antiche, la linea del fuoco nelle trincee, le focose passioni erotiche e politiche, il sacro fuoco dell’ispirazione, la fiamma come simbolo dei combattenti, le fiaccolate, le sigarette accese e penzolanti dalle labbra per il riposo del guerriero...
Il precursore di questa piromania artistico-letteraria fu d’Annunzio che aveva scritto Il fuoco, e che all’ardere e agli arditi, alle fiamme, le fiaccole e le faville, aveva dedicato pagine, poesie, discorsi e fiumi di parole. Ma alla scintilla si era rifatto pure Lenin battezzando così il suo giornale - Iskra - che precede la rivoluzione russa; e tutta la modernità sembrava nascere dal fuoco, messa a fuoco, punto focale: lenti, lastre, dinamo, bombe, bengala, fotografie, flash col botto, ciminiere, fuochisti, pietre focaie, motori a scoppio...
Il fuoco come illuminazione, come ardore, come purificazione del mondo, il fuoco come espressione di un’ispirazione artistica, una passione storica, una promessa di rinnovamento. A giudicare da alcuni effetti tragici di quella passione focosa si può forse dire che in quegli anni cercarono un paradiso fiammeggiante, ma non s’accorsero che col fuoco si propizia l’avvento dell’inferno. Le fiamme sono di casa lì, più che in paradiso. Si addicono ai dannati più che ai beati.
Non fu tanto l’esordio del nuovo secolo a generare questo choc, i primissimi anni dopo lo scoccare del ’900, quanto il decennio che ne seguì, dopo l’ebbrezza per le scoperte scientifiche e lo sgomento per il piccolo mondo antico che finiva. Ma fu solo dopo i primi anni, quando esplose nel febbraio del 1909 il futurismo che una miccia si accese e raggiunse presto i serbatoi di una società vogliosa di scatenare gli assoluti in terra, tramite l’arte, il pensiero, la parola, e poi la lotta, la guerra e la rivoluzione. Gli assoluti terrestri, direbbe Popper, ovvero i paradisi in terra.
Impensabile ai nostri occhi smagati del presente, quel clima e quella sete di assoluto riversata nell’arte, nella vita e nella storia. Ma impensabile anche la precoce età di quei protagonisti, ragazzi quasi tutti sotto i trent’anni come non vediamo ormai da un pezzo. Il secolo della giovinezza, cominciato allora, a cavallo delle rivoluzioni e delle guerre, dopo il Sessantotto finì negli anni di piombo. Uscita da quel tunnel, la storia andò all’ospizio e trionfò de senectute, una società grigia, anziana. La gioventù s’allarga, l’età media si allunga, spariscono i giovani, depositari d’avvenire.
Quel decennio non fu solo un laboratorio degli anni che verranno, ma fu anche il cimitero del futuro, l’arco in cui si bruciarono in anticipo sulla vita e sulla storia del secolo i serbatoi di speranza e i sogni d’avvenire che si spargeranno poi in tutto il Novecento. L’uomo nuovo, il mondo nuovo e l’ordine nuovo nacquero in quegli anni e il secolo che ne seguì fu l’apoteosi e l’agonia di quel novismo, il suo trionfo e la sua catastrofe.
«E vengano dunque, gli allegri incendiari dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia date fuoco agli scaffali delle biblioteche». È il primo fuoco appiccato in quel decennio: fu il Manifesto del Futurismo, di F. T. Marinetti.
A Milano presso le edizioni di Poesia di Marinetti, Aldo Palazzeschi, allora futurista, pubblica nel 1910 L’Incendiario, raccolta irriverente di poesie che mettono a ferro e fuoco il mondo anche se si aprono con l’apologia del maremoto, che a così breve distanza dalla tragedia di Messina e Reggio Calabria, era davvero una pessima ironia. Ma il suo non è il titolo di un libro, piuttosto è l’incipit di un’epoca, il programma di un generazione. «Uomini che avete orrore del fuoco, / poveri esseri di paglia!» scrive Palazzeschi che si definisce «povero incendiario mancato, incendiario da poesia. Ogni verso che scrivo è un incendio». «Sali o carbone, in fiammeggianti pire» gli fa eco un altro poeta futurista, Luciano Folgore nel Canto dei Motori del 1912, che è tutto un elogio del carbone e della combustione.
Prima del futurismo altri piromani avevano cominciato ad incendiare la letteratura italiana: Papini, Soffici e Prezzolini già dagli albori del Novecento si erano cimentati nell’impresa; ma in quegli anni produssero con libri, riviste e massacri, gli effetti visibili del loro talento focoso. Altri più densi incendi si appiccheranno nella poesia italiana con il Poeta pazzo, Dino Campana e i suoi sconvolgenti Canti Orfici usciti nel 1914. Fu un vero incendio nella letteratura, e per uno strano gioco del destino la prima edizione di quella raccolta, naturalmente poco compresa, finì in larga parte in un falò per riscaldare i soldati inglesi sull’appennino durante la guerra. Un falò, forse il primo rogo librario del Novecento, ma degna conclusione di un libro sulfureo, dedicato ad Orfeo. Un libro incendiario, che fece una fine adeguata, vorrei dire omeopatica.
«Il Giornale» del 24 settembre 2009
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