Scola: la tecnoscienza soffoca la «ratio»
di Angelo Scola
È decisamente positivo il fatto che oggi siamo usciti dall’epoca in cui le scienze vietavano di «porre la domanda delle domande». Esse stesse non temono ormai di parlare, in qualche modo, di verità.
La tecnoscienza, che non esclude di poter fornire spiegazioni per tutto il processo evolutivo, macro e micro – dal Big Bang fino all’insorgere della prima cellula di vivente – sembra voler farsi carico di quelli che una volta erano i contenuti dell’etica filosofica e della religio cui, già dalla modernità, erano per altro state ridotte le religioni, spogliate da tutti i loro misteri e riti per essere considerate nei limiti della sola ragione. Taluni cultori delle neuroscienze affermano addirittura che «il nostro cervello vuole credere» e quindi si apre uno spazio per una religiosità riconosciuta come fenomeno di una qualche rilevanza sociale. Essi dicono: pur sapendo che «di fronte ad un conflitto morale reagiamo di fatto in modi molto simili guidati da reti neurali o da sistemi di rinforzo comuni al nostro cervello» , non si può evitare di confrontarsi col fatto che, almeno fino a oggi, le persone, quotidianamente, vivono e muoiono in nome delle loro credenze religiose. Ci dividono le nostre teorie religiose e morali, ma la 'mente etica' ci unirà e ci salverà!
La concezione tecnoscientifica della vita umana e della sua storia è divenuta assai rilevante nelle democrazie avanzate soprattutto dell’Occidente. Se la democrazia plurale si costruisce autonomamente solo su procedure, è però la tecnoscienza (non più le religioni e le filosofie) a volerci dire che cos’è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere il fenomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipendente dal fatto che l’Occidente sta imponendo a tutto il mondo una concezione della felicità come puro prodotto progressivo della tecnoscienza. In questa visione delle cose non v’è più posto per l’anima, la risurrezione della carne, la vita eterna.
Ci si può anzitutto porre una domanda. Una simile visione della realtà è per l’autentico profitto della stessa tecnoscienza? Conviene anzitutto rilevare che la tecnoscienza fa leva su una visione del reale che consente la progressiva scoperta solo di ulteriori stati di cose, ma non quella di ulteriorità di senso rispetto a quello definito dall’impresa scientifica. Riaffiora qui obiettivamente il rischio che ogni autentica impresa scientifica deve invece scongiurare, di una nuova forma di riduzionismo (non di corretta 'riduzione') che finisce per produrre inedite, potenti varianti di scientismo, che in ogni sua forma, da quelle più rozze a quelle più raffinate, è fondato su una triplice ingiustificata identificazione: 'ciò che è' è 'ciò che è conoscibile'; 'ciò che è conoscibile' è 'ciò che è conoscibile scientificamente'; 'ciò che è conoscibile scientificamente' è 'ciò che è conoscibile mediante la scienza empirica'. Così che, in definitiva, solo le scienze, e in specie quelle empiricosperimentali, ci danno la conoscenza di ciò che è.
Non la scienza astrattamente intesa, che giustamente non accetta regolazioni estrinseche, ma l’uomo di scienza non può però eludere la domanda: l’orizzonte della ragione umana oltrepassa o no l’orizzonte della ragione scientifica? Esistono almeno due buoni motivi per rispondere positivamente. Anzitutto i processi umani, gli stati e le operazioni della mente quali intenzionalità, comportamento, cognizione, libero arbitrio non sono come tali oggetto possibile dell’indagine scientifica, che al più può analizzare solo le loro condizioni fisiche o psichiche. Non mancano conferme a questa affermazione da parte dei più recenti studi legati alle scienze cognitive. Inoltre vi è il problema dell’organismo che tiene in collegamento tali strutture, del perché esse svolgano la loro funzione, del come si siano formate.
Emerge con forza già a questo livello la questione dell’Io (Self), che dovrà nella sua complessa articolazione (continuità, unità, corporeità, azione volontaria) trovare spiegazione. E i cultori delle neuroscienze sono ben lungi dall’aver dimostrato che questa sia correlabile con una qualche funzione neuronale o area cerebrale.
In secondo luogo esistono forme di razionalità differenti dalla razionalità scientifica. Il logos umano, infatti, pur essendo uno, si esercita ed è produttivo secondo plurime forme teoriche, pratiche ed espressive – come già affermava Aristotele – che oggi possiamo identificare in almeno cinque forme differenziate e irriducibili di razionalità (cfr. i diversi gradi del sapere di Maritain e le diverse forme della conoscenza secondo Lonergan): teorico-scientifica (scienza), teorico-speculativa (filosofia/teologia), pratico-tecnica (tecnologia), pratico-morale (etica) e teorico-pratico-espressiva (poetica). Per questo Benedetto XVI molto opportunamente non cessa di invocare il rispetto dell’'ampiezza' della ragione, articolata nella pluralità delle sue capacità e funzioni, e quindi né arbitraria, né indifferenziata, pena la caduta nella frammentazione del senso.
La ragione, accolta in tutta la sua ampiezza, impone di fare spazio a ogni 'fenomeno' che si propone all’orizzonte dell’umana esperienza. Nessuno negherà in proposito il peso del senso religioso, della religione in generale e, in modo particolare per l’Occidente, della Rivelazione cristiana.
Era il 5 maggio 2006 quando Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega, ateo militante e puntuto, e il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, si incontravano alla Scuola Normale di Pisa. Ultimo appuntamento, e fra i più attesi, della rassegna 2006/2007 dei «Venerdì del direttore», il ciclo di incontri culturali organizzato dalla Normale ormai da più di 25 anni. Tema del dibattito, moderato dal direttore della Normale, Salvatore Settis, «Ateismo della ragione e/o ragioni della fede».
Un’esperienza non nuova per Flores, già protagonista di un dialogo celebre con l’allora cardinale Ratzinger, nel 2004, e un altro con il cardinale Carlo Caffarra, nel 2005.
Scola, da par suo, nell’agosto 2007 avrebbe poi 'duellato' anche con il decano dei laici(sti) duri e puri nostrani, Eugenio Scalfari. Il volume che esce oggi per le edizioni Marsilio, Ateismo della ragione e ragioni della fede (pagine 92, euro 7,90), è la testimonianza fedele di quelle due ore e mezzo trascorse in quel di Pisa, con tanto di trascrizione delle domande da parte del pubblico, delle risposte a braccio dei due relatori, più i post scriptum finali (di cui qui pubblichiamo quello del cardinale patriarca).
Pagine che meritano attenzione, oltre che per le rispettive e specifiche argomentazioni da ponderare, per i possibili effetti 'benefici' che un tipo di confronto ruvido e leale può riservare. Visto che, scrivono gli autori, ascoltare «in profondità le ragioni altrui, proponendo senza falso rispetto le proprie, ci sembra una via privilegiata per ridurre il tasso di conflittualità in una democrazia fondata su una procedura consensuale di decisione pattuita». (A.G.)
La tecnoscienza, che non esclude di poter fornire spiegazioni per tutto il processo evolutivo, macro e micro – dal Big Bang fino all’insorgere della prima cellula di vivente – sembra voler farsi carico di quelli che una volta erano i contenuti dell’etica filosofica e della religio cui, già dalla modernità, erano per altro state ridotte le religioni, spogliate da tutti i loro misteri e riti per essere considerate nei limiti della sola ragione. Taluni cultori delle neuroscienze affermano addirittura che «il nostro cervello vuole credere» e quindi si apre uno spazio per una religiosità riconosciuta come fenomeno di una qualche rilevanza sociale. Essi dicono: pur sapendo che «di fronte ad un conflitto morale reagiamo di fatto in modi molto simili guidati da reti neurali o da sistemi di rinforzo comuni al nostro cervello» , non si può evitare di confrontarsi col fatto che, almeno fino a oggi, le persone, quotidianamente, vivono e muoiono in nome delle loro credenze religiose. Ci dividono le nostre teorie religiose e morali, ma la 'mente etica' ci unirà e ci salverà!
La concezione tecnoscientifica della vita umana e della sua storia è divenuta assai rilevante nelle democrazie avanzate soprattutto dell’Occidente. Se la democrazia plurale si costruisce autonomamente solo su procedure, è però la tecnoscienza (non più le religioni e le filosofie) a volerci dire che cos’è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere il fenomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipendente dal fatto che l’Occidente sta imponendo a tutto il mondo una concezione della felicità come puro prodotto progressivo della tecnoscienza. In questa visione delle cose non v’è più posto per l’anima, la risurrezione della carne, la vita eterna.
Ci si può anzitutto porre una domanda. Una simile visione della realtà è per l’autentico profitto della stessa tecnoscienza? Conviene anzitutto rilevare che la tecnoscienza fa leva su una visione del reale che consente la progressiva scoperta solo di ulteriori stati di cose, ma non quella di ulteriorità di senso rispetto a quello definito dall’impresa scientifica. Riaffiora qui obiettivamente il rischio che ogni autentica impresa scientifica deve invece scongiurare, di una nuova forma di riduzionismo (non di corretta 'riduzione') che finisce per produrre inedite, potenti varianti di scientismo, che in ogni sua forma, da quelle più rozze a quelle più raffinate, è fondato su una triplice ingiustificata identificazione: 'ciò che è' è 'ciò che è conoscibile'; 'ciò che è conoscibile' è 'ciò che è conoscibile scientificamente'; 'ciò che è conoscibile scientificamente' è 'ciò che è conoscibile mediante la scienza empirica'. Così che, in definitiva, solo le scienze, e in specie quelle empiricosperimentali, ci danno la conoscenza di ciò che è.
Non la scienza astrattamente intesa, che giustamente non accetta regolazioni estrinseche, ma l’uomo di scienza non può però eludere la domanda: l’orizzonte della ragione umana oltrepassa o no l’orizzonte della ragione scientifica? Esistono almeno due buoni motivi per rispondere positivamente. Anzitutto i processi umani, gli stati e le operazioni della mente quali intenzionalità, comportamento, cognizione, libero arbitrio non sono come tali oggetto possibile dell’indagine scientifica, che al più può analizzare solo le loro condizioni fisiche o psichiche. Non mancano conferme a questa affermazione da parte dei più recenti studi legati alle scienze cognitive. Inoltre vi è il problema dell’organismo che tiene in collegamento tali strutture, del perché esse svolgano la loro funzione, del come si siano formate.
Emerge con forza già a questo livello la questione dell’Io (Self), che dovrà nella sua complessa articolazione (continuità, unità, corporeità, azione volontaria) trovare spiegazione. E i cultori delle neuroscienze sono ben lungi dall’aver dimostrato che questa sia correlabile con una qualche funzione neuronale o area cerebrale.
In secondo luogo esistono forme di razionalità differenti dalla razionalità scientifica. Il logos umano, infatti, pur essendo uno, si esercita ed è produttivo secondo plurime forme teoriche, pratiche ed espressive – come già affermava Aristotele – che oggi possiamo identificare in almeno cinque forme differenziate e irriducibili di razionalità (cfr. i diversi gradi del sapere di Maritain e le diverse forme della conoscenza secondo Lonergan): teorico-scientifica (scienza), teorico-speculativa (filosofia/teologia), pratico-tecnica (tecnologia), pratico-morale (etica) e teorico-pratico-espressiva (poetica). Per questo Benedetto XVI molto opportunamente non cessa di invocare il rispetto dell’'ampiezza' della ragione, articolata nella pluralità delle sue capacità e funzioni, e quindi né arbitraria, né indifferenziata, pena la caduta nella frammentazione del senso.
La ragione, accolta in tutta la sua ampiezza, impone di fare spazio a ogni 'fenomeno' che si propone all’orizzonte dell’umana esperienza. Nessuno negherà in proposito il peso del senso religioso, della religione in generale e, in modo particolare per l’Occidente, della Rivelazione cristiana.
Era il 5 maggio 2006 quando Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega, ateo militante e puntuto, e il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, si incontravano alla Scuola Normale di Pisa. Ultimo appuntamento, e fra i più attesi, della rassegna 2006/2007 dei «Venerdì del direttore», il ciclo di incontri culturali organizzato dalla Normale ormai da più di 25 anni. Tema del dibattito, moderato dal direttore della Normale, Salvatore Settis, «Ateismo della ragione e/o ragioni della fede».
Un’esperienza non nuova per Flores, già protagonista di un dialogo celebre con l’allora cardinale Ratzinger, nel 2004, e un altro con il cardinale Carlo Caffarra, nel 2005.
Scola, da par suo, nell’agosto 2007 avrebbe poi 'duellato' anche con il decano dei laici(sti) duri e puri nostrani, Eugenio Scalfari. Il volume che esce oggi per le edizioni Marsilio, Ateismo della ragione e ragioni della fede (pagine 92, euro 7,90), è la testimonianza fedele di quelle due ore e mezzo trascorse in quel di Pisa, con tanto di trascrizione delle domande da parte del pubblico, delle risposte a braccio dei due relatori, più i post scriptum finali (di cui qui pubblichiamo quello del cardinale patriarca).
Pagine che meritano attenzione, oltre che per le rispettive e specifiche argomentazioni da ponderare, per i possibili effetti 'benefici' che un tipo di confronto ruvido e leale può riservare. Visto che, scrivono gli autori, ascoltare «in profondità le ragioni altrui, proponendo senza falso rispetto le proprie, ci sembra una via privilegiata per ridurre il tasso di conflittualità in una democrazia fondata su una procedura consensuale di decisione pattuita». (A.G.)
«Avvenire» del 19 marzo 2008
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