L’arte è un’estensione delle funzioni del cervello, per cui ogni teoria del bello deve fondarsi su basi biologiche: ecco la «neuro-estetica» Parla il neurologo Zeki, domani relatore al Festival di Sarzana
di Luigi Dell'Aglio
Che cos’è la neuro-estetica? La domanda è difficile: non si riesce a immaginare che cosa possano avere in comune la filosofia del bello, che tra l’altro studia il mondo dell’arte, e la disciplina che indaga il cervello, opera in laboratorio e finora mai aveva compiuto raid in un campo come quello artistico, esclusivo e refrattario alle leggi delle scienze « dure » .
Perfino colui che ha ideato la neuro-estetica, Semir Zeki, professore di neurologia all’università di Londra, si aspetta che il suo approccio venga considerato, da alcuni critici, « bizzarro » . O addirittura « pericoloso » . Perché Zeki afferma che, « almeno a livello percettivo elementare » , ciò che accade nel cervello di un individuo, uomo o donna, quando osserva un’opera d’arte, « è molto simile a ciò che accade nel cervello di un altro » . E allora che vuol fare Zeki? Infeudare l’arte alle neuroscienze? borbotta più d’uno. Della sua affermazione e delle reazioni provocate nel mondo degli artisti e dei filosofi, il professore parlerà la mattina di domani intervenendo al Festival della Mente di Sarzana, in programma dal oggi a domenica. Zeki è stato tra i primi, 25 anni fa, a perlustrare il complicatissimo continente della corteccia visiva del cervello, la zona che si attiva quando guardiamo un quadro o una scultura.
Professore, ha motivo di preoccuparsi chi teme che, con questa teoria, l’arte perda la propria libertà, cioè un’identità che varia da artista ad artista, anzi da opera ad opera? « Ho esposto in un saggio le mie idee sulla ' neurologia dell’arte', diciamo così. È uscito anche in Italia, con il titolo La visione dall’interno ( Bollati Boringhieri). Ho voluto abbozzare una teoria estetica su base biologica. Penso che la funzione dell’arte e quella del nostro cervello visivo siano una sola; o almeno che gli obiettivi dell’arte siano un’estensione delle funzioni del cervello. Il mio scopo principale è convincere il pubblico e gli uomini di scienza che siamo all’inizio di una grande impresa.
Tutte le arti visive sono espressione del nostro cervello e perciò debbono obbedire alle sue leggi nell’ideare, nell’eseguire e nel valutare le proprie creazioni. Nessuna teoria estetica potrà mai essere completa e profonda, se non si baserà, in modo sostanziale, sull’attività del cervello » .
Lei ha letto e scritto molto sulle neuroscienze, ma deve essersi soffermato molto a lungo anche davanti alle opere d’arte, per capire come il cervello le comprende. « La mia prima esperienza è stata di una bellezza travolgente. Ero davanti alla Pietà di Michelangelo, in San Pietro.
Avevo 17 anni e mi suscitò intense emozioni. Ebbi la stessa reazione di Edward Gibbon, autore della Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano , la prima volta che vide San Pietro. Anch’io non sono stato in grado né di esprimere, né di dimenticare. Mi sono chiesto perché le opere d’arte ci commuovono con tanta forza.
Sono loro che mi hanno indotto a cercare di scoprire le basi neurologiche dell’esperienza estetica » .
Ma quali sono le opere che ha potuto spiegare meglio alla luce della sua teoria? « Prendiamo i quadri di Jan Vermeer, in particolare Ragazza davanti alla spinetta. L’artista usa il proprio virtuosismo tecnico per rappresentare simultaneamente, sulla stessa tela, non una ma tante verità, tutte egualmente valide. C’è una figura maschile di fronte alla ragazza: un corteggiatore, il marito, un fratello, un amico? Il quadro può così corrispondere a una molteplicità di ' immaginari' diversi.Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione, afferma che la pittura deve fare di tutto per rappresentare un oggetto non come cosa particolare ma come idea platonica, cioè come forma permanente di tutta una specie di situazioni. Raffaello scrisse a Baldassarre Castiglione che, per dipingere una bella donna, doveva averne viste molte ( probabilmente per conservarle nella memoria visiva, e combinare i tratti più belli di ognuna) » .
Con i pittori del ’ 900, la neuroestetica avrà incontrato qualche difficoltà.« Così potrebbe sembrare. Ma avviciniamoci ai cubisti, collochiamoci nel primo ventennio del secolo scorso. Ed esaminiamo Ritratto di donna di Pablo Picasso. Il soggetto guarda contemporaneamente in tre direzioni. È come se il pittore avesse camminato tutt’intorno alla donna, ottenendo quella che è stata denominata ' visione simultanea' » .
Il cervello è in condizione di riconoscere il contenuto rappresentativo del quadro, anche quando – come in « Uomo con il violino » , sempre di Picasso – il pubblico, per capire di che cosa si tratta, deve fare appello al titolo dell’opera? « Il quadro appare incomprensibile perché Picasso dipinse il suo soggetto partendo da una molteplicità di punti di vista. Di solito il cervello vede oggetti e persone da angolazioni diverse ma poi riesce a ordinare, in una forma integrata, tutte queste varie immagini. E così può riconoscere ciò che sta vedendo » .
Cioè l’essenziale? « Secondo la neuro- estetica, l’artista deve rappresentare l’essenziale. Si discuta pure sulla mia teoria, ma si convenga che è stato meglio non lasciare inesplorato un settore così stimolante e significativo, al confine tra scienza e arte. E sia chiaro che nessuno vuole ridurre l’arte a una formula, degradando così l’esperienza artistica, privandola della libertà».
Perfino colui che ha ideato la neuro-estetica, Semir Zeki, professore di neurologia all’università di Londra, si aspetta che il suo approccio venga considerato, da alcuni critici, « bizzarro » . O addirittura « pericoloso » . Perché Zeki afferma che, « almeno a livello percettivo elementare » , ciò che accade nel cervello di un individuo, uomo o donna, quando osserva un’opera d’arte, « è molto simile a ciò che accade nel cervello di un altro » . E allora che vuol fare Zeki? Infeudare l’arte alle neuroscienze? borbotta più d’uno. Della sua affermazione e delle reazioni provocate nel mondo degli artisti e dei filosofi, il professore parlerà la mattina di domani intervenendo al Festival della Mente di Sarzana, in programma dal oggi a domenica. Zeki è stato tra i primi, 25 anni fa, a perlustrare il complicatissimo continente della corteccia visiva del cervello, la zona che si attiva quando guardiamo un quadro o una scultura.
Professore, ha motivo di preoccuparsi chi teme che, con questa teoria, l’arte perda la propria libertà, cioè un’identità che varia da artista ad artista, anzi da opera ad opera? « Ho esposto in un saggio le mie idee sulla ' neurologia dell’arte', diciamo così. È uscito anche in Italia, con il titolo La visione dall’interno ( Bollati Boringhieri). Ho voluto abbozzare una teoria estetica su base biologica. Penso che la funzione dell’arte e quella del nostro cervello visivo siano una sola; o almeno che gli obiettivi dell’arte siano un’estensione delle funzioni del cervello. Il mio scopo principale è convincere il pubblico e gli uomini di scienza che siamo all’inizio di una grande impresa.
Tutte le arti visive sono espressione del nostro cervello e perciò debbono obbedire alle sue leggi nell’ideare, nell’eseguire e nel valutare le proprie creazioni. Nessuna teoria estetica potrà mai essere completa e profonda, se non si baserà, in modo sostanziale, sull’attività del cervello » .
Lei ha letto e scritto molto sulle neuroscienze, ma deve essersi soffermato molto a lungo anche davanti alle opere d’arte, per capire come il cervello le comprende. « La mia prima esperienza è stata di una bellezza travolgente. Ero davanti alla Pietà di Michelangelo, in San Pietro.
Avevo 17 anni e mi suscitò intense emozioni. Ebbi la stessa reazione di Edward Gibbon, autore della Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano , la prima volta che vide San Pietro. Anch’io non sono stato in grado né di esprimere, né di dimenticare. Mi sono chiesto perché le opere d’arte ci commuovono con tanta forza.
Sono loro che mi hanno indotto a cercare di scoprire le basi neurologiche dell’esperienza estetica » .
Ma quali sono le opere che ha potuto spiegare meglio alla luce della sua teoria? « Prendiamo i quadri di Jan Vermeer, in particolare Ragazza davanti alla spinetta. L’artista usa il proprio virtuosismo tecnico per rappresentare simultaneamente, sulla stessa tela, non una ma tante verità, tutte egualmente valide. C’è una figura maschile di fronte alla ragazza: un corteggiatore, il marito, un fratello, un amico? Il quadro può così corrispondere a una molteplicità di ' immaginari' diversi.Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione, afferma che la pittura deve fare di tutto per rappresentare un oggetto non come cosa particolare ma come idea platonica, cioè come forma permanente di tutta una specie di situazioni. Raffaello scrisse a Baldassarre Castiglione che, per dipingere una bella donna, doveva averne viste molte ( probabilmente per conservarle nella memoria visiva, e combinare i tratti più belli di ognuna) » .
Con i pittori del ’ 900, la neuroestetica avrà incontrato qualche difficoltà.« Così potrebbe sembrare. Ma avviciniamoci ai cubisti, collochiamoci nel primo ventennio del secolo scorso. Ed esaminiamo Ritratto di donna di Pablo Picasso. Il soggetto guarda contemporaneamente in tre direzioni. È come se il pittore avesse camminato tutt’intorno alla donna, ottenendo quella che è stata denominata ' visione simultanea' » .
Il cervello è in condizione di riconoscere il contenuto rappresentativo del quadro, anche quando – come in « Uomo con il violino » , sempre di Picasso – il pubblico, per capire di che cosa si tratta, deve fare appello al titolo dell’opera? « Il quadro appare incomprensibile perché Picasso dipinse il suo soggetto partendo da una molteplicità di punti di vista. Di solito il cervello vede oggetti e persone da angolazioni diverse ma poi riesce a ordinare, in una forma integrata, tutte queste varie immagini. E così può riconoscere ciò che sta vedendo » .
Cioè l’essenziale? « Secondo la neuro- estetica, l’artista deve rappresentare l’essenziale. Si discuta pure sulla mia teoria, ma si convenga che è stato meglio non lasciare inesplorato un settore così stimolante e significativo, al confine tra scienza e arte. E sia chiaro che nessuno vuole ridurre l’arte a una formula, degradando così l’esperienza artistica, privandola della libertà».
«Avvenire» del 4 settembre 2009
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