Simone Weil (Francia), Edith Stein (Germania), Maria Zambrano (Spagna), Armida Barelli (Italia): senza di loro non si può fare la storia del ’900
di Giorgio Campanini
Mentre il XXI secolo procede nel suo corso, è venuto il tempo di tracciare un bilancio, sia pure provvisorio, del Novecento, e cioè di un secolo che nella storia dell’Occidente è stato, nel tempo della modernità, forse il più inquieto e drammatico.
Se forse per altri secoli è possibile scrivere una storia quasi del tutto «al maschile», questa operazione è palesemente impossibile per il Novecento. Né la letteratura o la musica, né la filosofia o la scienza, né l’economia o la politica potranno essere ripercorse dimenticando o sottovalutando il ruolo delle donne.
Vi è stato chi ha parlato, a proposito della situazione della donna in Occidente, di «parità diseguale», nel senso che il principio dell’ideale eguaglianza fra i sessi e dunque della sostanziale parità è stato da sempre riconosciuto in un Occidente permeato, nonostante tutto, dell’eredità cristiana e con la persistente memoria dell’unica chiamata alla salvezza e del definitivo superamento, in una prospettiva di fede, di ogni discriminazione. Ma, storicamente e praticamente, le diseguaglianze sono restate e non poco tempo è stato necessario perché esse venissero (e non ancora del tutto) rimosse. Il Novecento è stato il secolo in cui questa grande « rivoluzione » si è compiuta, segnando una svolta irreversibile. Ciò è avvenuto – non è fuori luogo ricordarlo – per la lucida consapevolezza di non pochi uomini ma anche e soprattutto per l’impegno e la fatica di esemplari figure di donne. Si pensi ad esempio a quattro donne di altrettanti Paesi europei (per la Francia Simone Weil, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita; per la Germania Edith Stein; per la Spagna Maria Zambrano; per l’Italia Armida Barelli). Presenza femminile significativa – anche se forse ancora non del tutto adeguata al ruolo nuovo che proprio a partire dal Novecento la donna ha cominciato a svolgere nella storia – e in qualche modo compensatrice dei troppi silenzi che in passato sono calati sul contributo offerto alla storia dell’umanità da quella che è stata definita «l’altra metà del cielo».
Qual è la lezione che si può ricavare da uno sguardo d’insieme a una rappresentativa carrellata di protagoniste e protagonisti del Novecento? Si tratta, riteniamo, della conferma della tenace persistenza in Occidente (e soprattutto nell’Occidente cristiano) della tradizione umanistica che ha fatto grande la cultura europea e rischia ora di oscurarsi (ma proprio per questo è necessario che la memoria dei protagonisti di quella stagione non vada perduta).
Tenacemente, pervicacemente, ostinatamente, la migliore cultura europea – quella che ha avuto nell’Umanesimo cristiano la sua grande fonte ispiratrice – ha continuato a difendere l’uomo e la sua immagine, attaccata invece, da altre culture, su un triplice fronte: quello della riduzione materialistica dell’uomo a una fascia di centri nervosi, frutto di una lunga evoluzione abbandonata al caso, plasmabile e manipolabile a piacimento; quello del totale assoggettamento ora a uno Stato onnipotente ora a un si- stema sociale onnipresente e onnipervasivo; quello della riduzione materialistica dell’uomo a oggetto e soggetto di bisogni e interlocutore privilegiato di una società dei consumi orientata esclusivamente alla massimizzazione dei beni materiali, nell’illusoria convinzione che l’illimitato possesso delle cose potesse favorire l’incontro con la fragile e delicata categoria della «felicità ». A questa visione riduttiva della cultura la migliore intelligenza umanistica, e cristiana, ha saputo fortemente reagire per tutto il corso del Novecento. Basterà ricordare la passione con la quale Simone Weil ha difeso i «bisogni dell’anima»; la tenacia con la quale Adriano Olivetti si è battuto al fine di umanizzare un lavoro di fabbrica ricorrentemente assoggettato al rischio della mercificazione; la profetica denunzia di Giuseppe Capograssi delle possibili derive totalitarie, o comunque anti- personalistiche, di un apparato burocratico posto al servizio di se stesso... Né, su questo sfondo, può essere dimenticato l’impegno di un Agostino Gemelli e di un’Armida Barelli per il rinnovamento, proprio nella prospettiva di un nuovo umanesimo, della cultura cattolica.
Ci si potrebbe domandare se riandare a questo insieme di grandi figure del miglior Novecento concorra effettivamente a rimettere nel circuito della cultura il contenuto di messaggi, tanto al maschile quanto al femminile, oscurati e aggirati dai grandi mezzi di comunicazione di massa (la «beatificazione» collettiva di un onesto mestierante della televisione cui si è recentemente assistito è tragicomicamente esemplare...). Ma chi intende fare autenticamente cultura non ha l’immediata preoccupazione dell’audience o della «resa»: ciò che caratterizza l’autentica cultura è, come ben noto, la sua assoluta «gratuità».
Anche per questo fare cultura è (come ebbe a dire, in altro contesto, un noto magistrato) continuare a resistere: resistere alla massificazione della cultura, a quello che Giuseppe Capograssi ha chiamato una volta lo «stordimento» dell’uomo tecnologico – il cui destino era tutto inscritto nel «lavorare, andare in automobile, giocare a scacchi e poi morire» – in nome di un Umanesimo che, per afferrarsi e persistere, richiede spazi di meditazione, di riflessione, ma anche di quel partecipe «ascolto» che sempre precede il silenzio: quel silenzio interiore in cui, come ci ricorda la grande tradizione agostiniana, alla fine continua ad abitare la Parola.
Troppo spesso il Novecento viene proposto come l’età dei totalitarismi, dei «maestri del sospetto», degli accecamenti dell’uomo tecnologico. Anche questo, certo, il Novecento è stato; ma non solo questo. Riandare ad alcuni grandi testimoni, riscoprirne e riproporne la lezione, è un passaggio essenziale per riscoprire quella «verità dell’uomo», così cara a papa Wojtyla, che nonostante le sue ombre il migliore Novecento è stato in grado di trasmettere a quanti, nel secolo appena iniziato, dovranno trovare e percorrere le vie di un rinnovato umanesimo.
Se forse per altri secoli è possibile scrivere una storia quasi del tutto «al maschile», questa operazione è palesemente impossibile per il Novecento. Né la letteratura o la musica, né la filosofia o la scienza, né l’economia o la politica potranno essere ripercorse dimenticando o sottovalutando il ruolo delle donne.
Vi è stato chi ha parlato, a proposito della situazione della donna in Occidente, di «parità diseguale», nel senso che il principio dell’ideale eguaglianza fra i sessi e dunque della sostanziale parità è stato da sempre riconosciuto in un Occidente permeato, nonostante tutto, dell’eredità cristiana e con la persistente memoria dell’unica chiamata alla salvezza e del definitivo superamento, in una prospettiva di fede, di ogni discriminazione. Ma, storicamente e praticamente, le diseguaglianze sono restate e non poco tempo è stato necessario perché esse venissero (e non ancora del tutto) rimosse. Il Novecento è stato il secolo in cui questa grande « rivoluzione » si è compiuta, segnando una svolta irreversibile. Ciò è avvenuto – non è fuori luogo ricordarlo – per la lucida consapevolezza di non pochi uomini ma anche e soprattutto per l’impegno e la fatica di esemplari figure di donne. Si pensi ad esempio a quattro donne di altrettanti Paesi europei (per la Francia Simone Weil, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita; per la Germania Edith Stein; per la Spagna Maria Zambrano; per l’Italia Armida Barelli). Presenza femminile significativa – anche se forse ancora non del tutto adeguata al ruolo nuovo che proprio a partire dal Novecento la donna ha cominciato a svolgere nella storia – e in qualche modo compensatrice dei troppi silenzi che in passato sono calati sul contributo offerto alla storia dell’umanità da quella che è stata definita «l’altra metà del cielo».
Qual è la lezione che si può ricavare da uno sguardo d’insieme a una rappresentativa carrellata di protagoniste e protagonisti del Novecento? Si tratta, riteniamo, della conferma della tenace persistenza in Occidente (e soprattutto nell’Occidente cristiano) della tradizione umanistica che ha fatto grande la cultura europea e rischia ora di oscurarsi (ma proprio per questo è necessario che la memoria dei protagonisti di quella stagione non vada perduta).
Tenacemente, pervicacemente, ostinatamente, la migliore cultura europea – quella che ha avuto nell’Umanesimo cristiano la sua grande fonte ispiratrice – ha continuato a difendere l’uomo e la sua immagine, attaccata invece, da altre culture, su un triplice fronte: quello della riduzione materialistica dell’uomo a una fascia di centri nervosi, frutto di una lunga evoluzione abbandonata al caso, plasmabile e manipolabile a piacimento; quello del totale assoggettamento ora a uno Stato onnipotente ora a un si- stema sociale onnipresente e onnipervasivo; quello della riduzione materialistica dell’uomo a oggetto e soggetto di bisogni e interlocutore privilegiato di una società dei consumi orientata esclusivamente alla massimizzazione dei beni materiali, nell’illusoria convinzione che l’illimitato possesso delle cose potesse favorire l’incontro con la fragile e delicata categoria della «felicità ». A questa visione riduttiva della cultura la migliore intelligenza umanistica, e cristiana, ha saputo fortemente reagire per tutto il corso del Novecento. Basterà ricordare la passione con la quale Simone Weil ha difeso i «bisogni dell’anima»; la tenacia con la quale Adriano Olivetti si è battuto al fine di umanizzare un lavoro di fabbrica ricorrentemente assoggettato al rischio della mercificazione; la profetica denunzia di Giuseppe Capograssi delle possibili derive totalitarie, o comunque anti- personalistiche, di un apparato burocratico posto al servizio di se stesso... Né, su questo sfondo, può essere dimenticato l’impegno di un Agostino Gemelli e di un’Armida Barelli per il rinnovamento, proprio nella prospettiva di un nuovo umanesimo, della cultura cattolica.
Ci si potrebbe domandare se riandare a questo insieme di grandi figure del miglior Novecento concorra effettivamente a rimettere nel circuito della cultura il contenuto di messaggi, tanto al maschile quanto al femminile, oscurati e aggirati dai grandi mezzi di comunicazione di massa (la «beatificazione» collettiva di un onesto mestierante della televisione cui si è recentemente assistito è tragicomicamente esemplare...). Ma chi intende fare autenticamente cultura non ha l’immediata preoccupazione dell’audience o della «resa»: ciò che caratterizza l’autentica cultura è, come ben noto, la sua assoluta «gratuità».
Anche per questo fare cultura è (come ebbe a dire, in altro contesto, un noto magistrato) continuare a resistere: resistere alla massificazione della cultura, a quello che Giuseppe Capograssi ha chiamato una volta lo «stordimento» dell’uomo tecnologico – il cui destino era tutto inscritto nel «lavorare, andare in automobile, giocare a scacchi e poi morire» – in nome di un Umanesimo che, per afferrarsi e persistere, richiede spazi di meditazione, di riflessione, ma anche di quel partecipe «ascolto» che sempre precede il silenzio: quel silenzio interiore in cui, come ci ricorda la grande tradizione agostiniana, alla fine continua ad abitare la Parola.
Troppo spesso il Novecento viene proposto come l’età dei totalitarismi, dei «maestri del sospetto», degli accecamenti dell’uomo tecnologico. Anche questo, certo, il Novecento è stato; ma non solo questo. Riandare ad alcuni grandi testimoni, riscoprirne e riproporne la lezione, è un passaggio essenziale per riscoprire quella «verità dell’uomo», così cara a papa Wojtyla, che nonostante le sue ombre il migliore Novecento è stato in grado di trasmettere a quanti, nel secolo appena iniziato, dovranno trovare e percorrere le vie di un rinnovato umanesimo.
«Avvenire» del 23 settembre 2009
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