I modi dell'integrazione necessaria
di Carlo Cardia
La morte di Sanaa, uccisa dal padre per aver fatto delle libere scelte affettive, ha assunto i caratteri di una tragedia-simbolo della globalizzazione e dell’incontro tra i popoli. Questo incontro è facile quando i popoli si parlano da lontano, ed è necessario per rendere l’umanità una vera famiglia in cui tutti i membri abbiano eguali diritti. Diviene difficile quando i popoli trasmigrano, le tradizioni si confrontano sullo stesso territorio, quando si intrecciano livelli evolutivi diversi. Sanaa è il soggetto innocente e più debole che ha pagato l’egoismo più feroce di chi l’ha colpita, ma anche l’indifferenza di altri, e chiede a tutti noi una presa di coscienza di verità che a volte non vogliamo dirci. Ci sono persone, tradizioni, modi d’intendere le religioni, che al primo posto della scala dei valori non pongono la vita e la dignità della persona, ma restano legate a logiche di sopraffazione, di crudeltà, fino all’esaltazione della violenza estrema. Lo sappiamo e lo vediamo in tutto il mondo, con regimi totalitari che fanno uso quotidiano della violenza contro gruppi etnici e nazionali, con fondamentalismi che alimentano persecuzioni religiose, in modo speciale contro il cristianesimo e i cristiani. A queste tragedie dobbiamo dare una risposta civile e internazionale con il riconoscimento e la difesa dei diritti umani fondamentali per tutti e dovunque. Ma anche con la pratica dei principi cristiani che chiedono rispetto degli altri, amore per il prossimo, amore per la vita, e che portano affinamento spirituale e civile.
Ancor più abbiamo il dovere di parlare e di intervenire quando la violenza si manifesta in modo così atroce in casa nostra, nel mondo dell’immigrazione, senza tacere per malcelato timore o sminuire i fatti per sottintesi opportunismi. La straziante tragedia di Sanaa nasconde una realtà di soggezione e subalternità delle donne nelle pieghe dell’immigrazione che non possiamo nascondere o fingere di non vedere, così come le parole della madre di Sanaa che ha giustificato l’uccisione della figlia appaiono terribili e feriscono il cuore di ogni genitore. Il primo compito dello Stato, di tutti noi, è evitare che le comunità dell’immigrazione divengano comunità chiuse, con leggi diverse, con gerarchie interne dispotiche. Anche perciò è giusto chiedere agli esponenti di queste comunità di intervenire, condannare tali gesti, parlare di diritti che non sono comprimibili da nessuno, in nessun momento. Come c’è da sperare che nei prossimi mesi qualche magistrato non giustifichi in qualche modo il gesto omicida con qualche eccezione di multiculturalità, sulla scia di sciagurati precedenti giurisprudenziali. Si è detto che l’uccisione di Sanaa non ha nulla a che vedere con la religione. In parte può essere giusto, ma non è sufficiente a risolvere il problema, bisogna riconoscere anche che la religione islamica è utilizzata da qualcuno per legittimare questo o altri gesti, intollerabili in una società rispettosa della dignità della persona.
Quanto accaduto, inoltre, pone allo Stato e alle istituzioni pubbliche la questione centrale dell’integrazione e dei modi per realizzarla. L’integrazione è necessaria, ma è una meta da raggiungere, non è già oggi una realtà per la maggior parte degli immigrati. Questo risultato non lo si raggiunge a parole, o con provvedimenti esclusivamente securitari, ma coinvolgendo le comunità degli immigrati in un processo di incontro, di dialogo, nel quale esse assumano anche precise responsabilità per far progredire costumi, mentalità, comportamenti, in chi viene da lontano, conosce arretratezze, ha sensibilità diverse su problemi cruciali della convivenza civile. Bisogna perciò fare ogni sforzo e dar seguito a ogni impegno, anche in sede istituzionale, perché il processo evolutivo vada avanti. Qui può celarsi il punto di non ritorno di una morte orribile come quella di Sanaa, che chiama in causa i nostri sentimenti, i principi più elementari di una società cristiana, ma chiede anche di coinvolgere la politica e i suoi protagonisti, perché il problema dell’integrazione sia affrontato con intelligenza e coraggio. Senza impegnarsi, tutti insieme, per raggiungere questo obiettivo rischiamo che si creino delle 'terre di nessuno' ove valgono leggi aliene e ingiuste, ove avvengono fatti mostruosi, che poi finiscono semplicemente in cronaca.
Ancor più abbiamo il dovere di parlare e di intervenire quando la violenza si manifesta in modo così atroce in casa nostra, nel mondo dell’immigrazione, senza tacere per malcelato timore o sminuire i fatti per sottintesi opportunismi. La straziante tragedia di Sanaa nasconde una realtà di soggezione e subalternità delle donne nelle pieghe dell’immigrazione che non possiamo nascondere o fingere di non vedere, così come le parole della madre di Sanaa che ha giustificato l’uccisione della figlia appaiono terribili e feriscono il cuore di ogni genitore. Il primo compito dello Stato, di tutti noi, è evitare che le comunità dell’immigrazione divengano comunità chiuse, con leggi diverse, con gerarchie interne dispotiche. Anche perciò è giusto chiedere agli esponenti di queste comunità di intervenire, condannare tali gesti, parlare di diritti che non sono comprimibili da nessuno, in nessun momento. Come c’è da sperare che nei prossimi mesi qualche magistrato non giustifichi in qualche modo il gesto omicida con qualche eccezione di multiculturalità, sulla scia di sciagurati precedenti giurisprudenziali. Si è detto che l’uccisione di Sanaa non ha nulla a che vedere con la religione. In parte può essere giusto, ma non è sufficiente a risolvere il problema, bisogna riconoscere anche che la religione islamica è utilizzata da qualcuno per legittimare questo o altri gesti, intollerabili in una società rispettosa della dignità della persona.
Quanto accaduto, inoltre, pone allo Stato e alle istituzioni pubbliche la questione centrale dell’integrazione e dei modi per realizzarla. L’integrazione è necessaria, ma è una meta da raggiungere, non è già oggi una realtà per la maggior parte degli immigrati. Questo risultato non lo si raggiunge a parole, o con provvedimenti esclusivamente securitari, ma coinvolgendo le comunità degli immigrati in un processo di incontro, di dialogo, nel quale esse assumano anche precise responsabilità per far progredire costumi, mentalità, comportamenti, in chi viene da lontano, conosce arretratezze, ha sensibilità diverse su problemi cruciali della convivenza civile. Bisogna perciò fare ogni sforzo e dar seguito a ogni impegno, anche in sede istituzionale, perché il processo evolutivo vada avanti. Qui può celarsi il punto di non ritorno di una morte orribile come quella di Sanaa, che chiama in causa i nostri sentimenti, i principi più elementari di una società cristiana, ma chiede anche di coinvolgere la politica e i suoi protagonisti, perché il problema dell’integrazione sia affrontato con intelligenza e coraggio. Senza impegnarsi, tutti insieme, per raggiungere questo obiettivo rischiamo che si creino delle 'terre di nessuno' ove valgono leggi aliene e ingiuste, ove avvengono fatti mostruosi, che poi finiscono semplicemente in cronaca.
«Avvenire» del 23 settembre 2009
Nessun commento:
Posta un commento