Il cavallo di Troia
di Carlo Carena
La cultura appare oggi come un Cavallo di Troia che si prova a entrare in una città ricca di mezzi e coperta di lustrini che non lo riconosce, che non sa bene cosa esso contenga; che sa vagamente da dove venga e per dove sia passato prima di giungere lì e tentare di rivelare i tesori avvolti nel buio del suo ventre come la caverna di Platone contiene le ombre di tutte le cose.
Il suo faticoso percorso si è svolto attraversando, secondo l’immagine coniata da Salman Rushdie, un oceano gonfio che sospinge dal passato al presente migliaia e migliaia di correnti diverse, ognuna di colore diverso, le quali s’intrecciano come in una tappezzeria e rischiano di perdersi per la loro stessa complessità.
Così per noi in Occidente da millenni fluiscono le fonti della tradizione classica e della cristiana, distinte e integrate, sovrapponendosi o superandosi attraverso ponti millenari da Omero a Joyce, da Virgilio a Eliot, dalla Genesi a Milton, da Dante a Pound. Della storia e dell’imponenza della cultura classica il cristianesimo è rimasto perenne debitore, usandone le lingue, gli strumenti espressivi, le opere, i repertori, i protagonisti, i metodi e i parametri, le categorie filosofiche e le poetiche, persino gli eroi e le loro virtù.
Cosa non vide di orrido ma anche di provvidenziale sant’Agostino nell’impero romano; quanti quadretti, più umilmente, della Sacra Famiglia non evoca questa descrizione che il buon abate Lhomond alla vigilia della Rivoluzione francese attingeva dalle storie romane e proponeva agli allievi delle scuole medie di Francia: « Catone il Censore, come era un senatore eccezionale, così fu un buon padre.
Quando gli nacque un figlio, nessun’altra mansione al di fuori dei suoi doveri politici l’impedivano di essere al fianco della madre allorché lavava il bebè e lo fasciava: poiché essa nutriva il figlio col proprio latte. Quando il fanciullo raggiunse l’età della ragione, il padre gli insegnò a leggere e a scrivere… » . Un debito che è venuto più volte a scadenza, creando non poche difficoltà: ora più che mai, quando viene a scadenza il classico stesso e si diffida di lui.
E a sua volta, come calcolare il contributo diretto arrecato dal cristianesimo alla creazione in tutte le letterature di capolavori sacri ma anche profani? Sarebbe una banalità andar oltre i cenni appena fatti e oltre la letteratura, negli spazi della spiritualità e dell’etica, dove valori si sono aggiunti a valori e le dimensioni dello spazio e del tempo si sono ampliati all’infinito.
Riuscire a non arrestare oggi quel flusso è una scommessa difficile ma vitale. Perché riuscire ancora a capire davvero in tutto e per tutto, oggi, le meraviglie dell’epistolario di san Gerolamo come quelle dei moralisti seicenteschi, orientarsi nello Zibaldone di Leopardi e nei labirinti di Borges è impresa più ardua che mai ma ancora necessaria per rendere degna la vita nella polis. Né meno per una Madonna in trono con santi e sante o in un affresco biblico, per un soffitto mitologico neoclassico o una morbosa tela preraffaellita, incomprensibili e inerti, inutili a uno sguardo vuoto, senza risalire quelle due correnti, ai gorghi, ai laghi da esse creati nel loro fluire. I Troiani ignari sembrano gridare come grida uno di loro nel dilettevole Cavallo di Troia di Christopher Morley – tradotto da Cesare Pavese nel ’ 42 per Bompiani – mentre la città vacilla e squillano le trombe, sibilano le autobotti dei pompieri e tutto intorno va in frantumi: « Un momento, amici! Fermi tutti, pare un allarme d’incendio, forse in quel Cavallo ci sono armi chimiche, è un altro sporco tiro di quegli stranieri ma noi non abbiamo paura, i nostri avranno ragione di tutto » .
Il suo faticoso percorso si è svolto attraversando, secondo l’immagine coniata da Salman Rushdie, un oceano gonfio che sospinge dal passato al presente migliaia e migliaia di correnti diverse, ognuna di colore diverso, le quali s’intrecciano come in una tappezzeria e rischiano di perdersi per la loro stessa complessità.
Così per noi in Occidente da millenni fluiscono le fonti della tradizione classica e della cristiana, distinte e integrate, sovrapponendosi o superandosi attraverso ponti millenari da Omero a Joyce, da Virgilio a Eliot, dalla Genesi a Milton, da Dante a Pound. Della storia e dell’imponenza della cultura classica il cristianesimo è rimasto perenne debitore, usandone le lingue, gli strumenti espressivi, le opere, i repertori, i protagonisti, i metodi e i parametri, le categorie filosofiche e le poetiche, persino gli eroi e le loro virtù.
Cosa non vide di orrido ma anche di provvidenziale sant’Agostino nell’impero romano; quanti quadretti, più umilmente, della Sacra Famiglia non evoca questa descrizione che il buon abate Lhomond alla vigilia della Rivoluzione francese attingeva dalle storie romane e proponeva agli allievi delle scuole medie di Francia: « Catone il Censore, come era un senatore eccezionale, così fu un buon padre.
Quando gli nacque un figlio, nessun’altra mansione al di fuori dei suoi doveri politici l’impedivano di essere al fianco della madre allorché lavava il bebè e lo fasciava: poiché essa nutriva il figlio col proprio latte. Quando il fanciullo raggiunse l’età della ragione, il padre gli insegnò a leggere e a scrivere… » . Un debito che è venuto più volte a scadenza, creando non poche difficoltà: ora più che mai, quando viene a scadenza il classico stesso e si diffida di lui.
E a sua volta, come calcolare il contributo diretto arrecato dal cristianesimo alla creazione in tutte le letterature di capolavori sacri ma anche profani? Sarebbe una banalità andar oltre i cenni appena fatti e oltre la letteratura, negli spazi della spiritualità e dell’etica, dove valori si sono aggiunti a valori e le dimensioni dello spazio e del tempo si sono ampliati all’infinito.
Riuscire a non arrestare oggi quel flusso è una scommessa difficile ma vitale. Perché riuscire ancora a capire davvero in tutto e per tutto, oggi, le meraviglie dell’epistolario di san Gerolamo come quelle dei moralisti seicenteschi, orientarsi nello Zibaldone di Leopardi e nei labirinti di Borges è impresa più ardua che mai ma ancora necessaria per rendere degna la vita nella polis. Né meno per una Madonna in trono con santi e sante o in un affresco biblico, per un soffitto mitologico neoclassico o una morbosa tela preraffaellita, incomprensibili e inerti, inutili a uno sguardo vuoto, senza risalire quelle due correnti, ai gorghi, ai laghi da esse creati nel loro fluire. I Troiani ignari sembrano gridare come grida uno di loro nel dilettevole Cavallo di Troia di Christopher Morley – tradotto da Cesare Pavese nel ’ 42 per Bompiani – mentre la città vacilla e squillano le trombe, sibilano le autobotti dei pompieri e tutto intorno va in frantumi: « Un momento, amici! Fermi tutti, pare un allarme d’incendio, forse in quel Cavallo ci sono armi chimiche, è un altro sporco tiro di quegli stranieri ma noi non abbiamo paura, i nostri avranno ragione di tutto » .
«Avvenire» del 6 settembre 2009
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