di Piero Coda
A centocinquant’anni dalla pubblicazione dalla pubblicazione de L’origine delle specie di Charles Darwin, il dibattito culturale intorno all’evoluzione – e alle sue molteplici ricadute e conseguenze – è tutt’altro che svigorito o spento: anche, anzi in primis, sul versante del suo scontro e/o incontro col principio, di marca teologica, della creazione. Da un versante, e dall’altro, da quello cioè dei sostenitori dell’evoluzione sino all’evoluzionismo o da quello dei sostenitori della creazione sino al creazionismo, così come – detto con una buona dose di semplificazione – da quello della scienza o da quello della fede, non mancano le prese di posizione in proposito.
Ciò avviene – mi pare di poter dire – perché la stagione che stiamo attraversando mette a fuoco, in definitiva, con un’evidenza che forse non era così avvertibile sin dall’inizio del dibattito ottocentesco, il senso e la direzione dell’avventura dell’uomo nella storia dell’universo.
Sì, perché è proprio questo, a ben vedere, l’oggetto ultimo del contendere: che ne è dell’uomo, non solo guardando alla storia dell’universo che sino a lui ha portato, ma anche guardando a ciò che oggi si sta realisticamente profilando a proposito delle possibilità di plasmare e persino trasformare la sua identità biologica e psico-somatica? In altri termini: ciò che di fatto la questione dell’evoluzione pone sul tappeto non è tanto l’offerta di una chiave di lettura scientifica, fondata e oggettiva, d’interpretazione della storia dell’universo, quanto, insieme a questo, la riproposizione dell’eterno interrogativo intorno all’identità e al destino dell’uomo, per sé immerso nel lusso di questa storia, certo, ma al tempo stesso decisamente eccentrico ed eccedente rispetto ad essa.
È dunque chiaro che la questione dell’evoluzione, nonostante il travagliato ma senza meno prezioso lavorio di chiarificazione che si è prodotto in questi centocinquant’anni trovi nuova esca, e persino con qualche recrudescenza di toni nell’odierno riproporsi del cruciale interrogativo intorno all’uomo. Il che viene a dire, oggi come ieri, oggi forse più di ieri, che la controversia intorno all’evoluzione per sé va declinata su due piani. In primo luogo, quello della correttezza epistemica che invita a distinguere gli ambiti, i metodi, i criteri, l’estensione delle affermazioni che vengono fatte dai diversi saperi – si tratti di quello scientifico o di quello teologico – in fedeltà alle rispettive portate conoscitive e ai rispettivi significati antropologici senza cedere alla tentazione d’indebite generalizzazioni e assolutizzazioni.
In secondo luogo, quello della necessaria correlazione di tali saperi dei loro oggetti e dei loro risultati nel contesto integrale dell’impresa conoscitiva dell’uomo in risposta all’imperativo dell’esplicazione libera e intelligente della propria identità.
Molte e tuttora perduranti incomprensioni derivano dallo slittamento, più o meno consapevole, dei pensieri, e degli atteggiamenti tra i due piani. In questa logica, giunge quanto mai opportuno l’appello lanciato da Benedetto XVI ad allargare gli spazi d’esercizio della razionalità: e cioè, detto in termini più perspicui e precisi, a tenere aperto l’orizzonte di ricerca della ragione umana in tutta la sua vastità. Rispettando, certo, e promuovendo l’investigazione della ragione nei vari ambiti e dimensioni del reale con gli appropriati metodi, ma insieme non imponendo a priori dei confini oltre i quali la ragione non potrebbe o non dovrebbe spingersi.
Dunque, se l’intelligenza responsabile della fede cristiana non può che giovarsi dei risultati dell’indagine scientifica nell’esplicarsi della sua autonoma metodologia, altrettanto l’indagine scientifica non può che arricchirsi, anzi in definitiva avvicinarsi alla sua finalità ultima, quando inserisce i risultati cui è pervenuta entro un quadro di riferimento più vasto e di altro livello, che come tale può essere intenzionato solo da altri saperi – come ad esempio la filosofia e la teologia.
Evoluzione e creazione infatti – per stare al nostro oggetto – per sé sono concetti che afferiscono a due livelli distinti del reale: la confusione o il conflitto nascono quando li si incrocia indebitamente. Mentre, quando son fatti valere nei rispettivi contesti, possono davvero arricchirsi l’un l’altro, ciascuno restando pertinente al proprio livello ma insieme offrendo una qualche luce per l’interpretazione ulteriore dell’altro.
La controversia tra evoluzione e creazione non è che la spia di una correlazione tra sapere della fede e sapere delle scienze di cui ancora non si è trovato il bandolo. Di fatto, la genesi e l’esercizio della razionalità scientifica moderna ha provocato un tale sconvolgimento nell’architettura dei saperi prima data per certa e definitiva, che ancora non si è riusciti a ricomporre adeguatamente le cose. E il pericolo – come accennavo – è che ne faccia le spese l’identità dell’uomo in un momento delicato e inedito come quello che stiamo vivendo.
Per questo è necessario con ogni sforzo, ma senza forzature, lavorare a una ricomposizione rispettosa della pluralità dei saperi e al contempo attenta all’unità di senso e di destino dell’uomo e del cosmo.
Ciò avviene – mi pare di poter dire – perché la stagione che stiamo attraversando mette a fuoco, in definitiva, con un’evidenza che forse non era così avvertibile sin dall’inizio del dibattito ottocentesco, il senso e la direzione dell’avventura dell’uomo nella storia dell’universo.
Sì, perché è proprio questo, a ben vedere, l’oggetto ultimo del contendere: che ne è dell’uomo, non solo guardando alla storia dell’universo che sino a lui ha portato, ma anche guardando a ciò che oggi si sta realisticamente profilando a proposito delle possibilità di plasmare e persino trasformare la sua identità biologica e psico-somatica? In altri termini: ciò che di fatto la questione dell’evoluzione pone sul tappeto non è tanto l’offerta di una chiave di lettura scientifica, fondata e oggettiva, d’interpretazione della storia dell’universo, quanto, insieme a questo, la riproposizione dell’eterno interrogativo intorno all’identità e al destino dell’uomo, per sé immerso nel lusso di questa storia, certo, ma al tempo stesso decisamente eccentrico ed eccedente rispetto ad essa.
È dunque chiaro che la questione dell’evoluzione, nonostante il travagliato ma senza meno prezioso lavorio di chiarificazione che si è prodotto in questi centocinquant’anni trovi nuova esca, e persino con qualche recrudescenza di toni nell’odierno riproporsi del cruciale interrogativo intorno all’uomo. Il che viene a dire, oggi come ieri, oggi forse più di ieri, che la controversia intorno all’evoluzione per sé va declinata su due piani. In primo luogo, quello della correttezza epistemica che invita a distinguere gli ambiti, i metodi, i criteri, l’estensione delle affermazioni che vengono fatte dai diversi saperi – si tratti di quello scientifico o di quello teologico – in fedeltà alle rispettive portate conoscitive e ai rispettivi significati antropologici senza cedere alla tentazione d’indebite generalizzazioni e assolutizzazioni.
In secondo luogo, quello della necessaria correlazione di tali saperi dei loro oggetti e dei loro risultati nel contesto integrale dell’impresa conoscitiva dell’uomo in risposta all’imperativo dell’esplicazione libera e intelligente della propria identità.
Molte e tuttora perduranti incomprensioni derivano dallo slittamento, più o meno consapevole, dei pensieri, e degli atteggiamenti tra i due piani. In questa logica, giunge quanto mai opportuno l’appello lanciato da Benedetto XVI ad allargare gli spazi d’esercizio della razionalità: e cioè, detto in termini più perspicui e precisi, a tenere aperto l’orizzonte di ricerca della ragione umana in tutta la sua vastità. Rispettando, certo, e promuovendo l’investigazione della ragione nei vari ambiti e dimensioni del reale con gli appropriati metodi, ma insieme non imponendo a priori dei confini oltre i quali la ragione non potrebbe o non dovrebbe spingersi.
Dunque, se l’intelligenza responsabile della fede cristiana non può che giovarsi dei risultati dell’indagine scientifica nell’esplicarsi della sua autonoma metodologia, altrettanto l’indagine scientifica non può che arricchirsi, anzi in definitiva avvicinarsi alla sua finalità ultima, quando inserisce i risultati cui è pervenuta entro un quadro di riferimento più vasto e di altro livello, che come tale può essere intenzionato solo da altri saperi – come ad esempio la filosofia e la teologia.
Evoluzione e creazione infatti – per stare al nostro oggetto – per sé sono concetti che afferiscono a due livelli distinti del reale: la confusione o il conflitto nascono quando li si incrocia indebitamente. Mentre, quando son fatti valere nei rispettivi contesti, possono davvero arricchirsi l’un l’altro, ciascuno restando pertinente al proprio livello ma insieme offrendo una qualche luce per l’interpretazione ulteriore dell’altro.
La controversia tra evoluzione e creazione non è che la spia di una correlazione tra sapere della fede e sapere delle scienze di cui ancora non si è trovato il bandolo. Di fatto, la genesi e l’esercizio della razionalità scientifica moderna ha provocato un tale sconvolgimento nell’architettura dei saperi prima data per certa e definitiva, che ancora non si è riusciti a ricomporre adeguatamente le cose. E il pericolo – come accennavo – è che ne faccia le spese l’identità dell’uomo in un momento delicato e inedito come quello che stiamo vivendo.
Per questo è necessario con ogni sforzo, ma senza forzature, lavorare a una ricomposizione rispettosa della pluralità dei saperi e al contempo attenta all’unità di senso e di destino dell’uomo e del cosmo.
«Avvenire» del 24 settembre 2009
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