Si sta preparando l'affare del secolo
di Roberto Volpi
Perché l'influenza suina è paragonabile al più comune dei malanni stagionali
Il cinquantunenne napoletano ricoverato da un po’ di giorni in gravi condizioni e già dato per morto è morto davvero. Colpito da influenza suina, il soggetto in questione era un oligofrenico affetto da miocardiopatia dilatatoria grave e da una grave forma di diabete mellito. Quadro clinico aggravato da insufficienza renale e sepsi da stafilococco. Subito etichettato come primo morto per influenza suina, i medici si sono premurati di sottolineare come l’influenza c’entri pressappoco come il cavolo a merenda: “Qualunque altra infezione avrebbe portato alla stessa conclusione”.
Dunque la notizia sta nel fatto che l’influenza suina (influenza pandemica) non ha combinato niente che una qualsiasi altra infezione comunque sopraggiunta non avrebbe saputo combinare. Influenza pandemica A(N1H1), si diceva. Così definita per distinguerla dalle ordinarie influenze stagionali che raggiungono le nostre aree di norma nel periodo centrale dell’autunno-inverno. Distinzione essenziale: le influenze pandemiche non stagionali non si comportano di solito come quelle stagionali, non si manifestano, non hanno picchi e recrudescenze tipicamente collegati al mutare del tempo e delle stagioni come quelle – non a caso – dette stagionali. Ma per quanto definita come pandemica, l’influenza suina viene invece quotidianamente trattata pari pari come una comune influenza stagionale, e infatti se ne prevede, con l’arrivo del cambio di stagione e del brutto tempo, una formidabile recrudescenza autunno-invernale.
E così già si è provveduto a fondere, alquanto impropriamente, i tratti delle due distinte tipologie di influenza.
L’Oms ha smesso pressoché da subito di registrare i casi accertati virologicamente e ha preso a conteggiare i casi comunque diagnosticati, lanciando anche ultimamente cifre di precisione tanto millimetrica quanto miracolosa, del tipo: 210.917 casi nel mondo con un tasso di mortalità di 0,98% che, sol che si abbia un po’ di dimestichezza coi sistemi di rilevazione e registrazione, suonano come una sonora presa per i fondelli.
Ma anche in Italia non si è scherzato. Con un fax trasmesso il 24 luglio 2009 dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute agli assessorati alla Sanità delle Regioni e, per conoscenza, agli Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera e all’Istituto Superiore di Sanità si è stabilito che: “Considerato l’incremento dei casi di influenza A(N1H1)v (….) non si ritiene più indispensabile la conferma virologica di tutti i casi sospetti”. Seguono disposizioni il cui senso è: ogni affezione respiratoria che dia luogo a una febbre di almeno 38° è considerata influenza suina. Ma anche coi nuovi criteri di manica larga, i casi di influenza suina non sono ancora arrivati a duemila, a letto ci saranno attualmente in tutta Italia sì e no cento persone con questo quadro clinico, ovvero senza un baffo di niente che non sappia procurare la più pigra e indolente delle influenze, l’influenza A(N1H1) non ha ancora fatto il suo primo (vero) morto dal momento della sua comparsa agli inizi di maggio: e questo mentre una comune influenza stagionale nei suoi primi tre mesi mette a letto centinaia di migliaia di persone (quando non milioni) e fa qualcosa come 4-5mila morti – l’uno per cento del totale delle morti annue in Italia.
Qui sta il punto. Dal momento che i sintomi per diagnosticare clinicamente l’influenza suina sono gli stessi che servono a diagnosticare la comune influenza stagionale, e che temporalmente le due influenze saranno perfettamente sovrapponibili, come si potrà distinguere la prima dalla seconda, quando la seconda entrerà in scena? Chi si piglierà la febbre accompagnata da senso di stanchezza e raffreddore o mal di gola in quale categoria verrà inserito, dal momento che la diagnosi virologica dell’influenza suina è stata soppressa alla velocità della luce e quella clinica dell’influenza stagionale presenterà esattamente gli stessi sintomi? E se le classi verranno chiuse quando si presenteranno tre casi, quale scuola si salverà, dal momento che non c’è influenza stagionale che non procuri tre casi in una qualche classe?
Si sta preparando l’affare del secolo (siamo già a una prima stima di dieci miliardi di euro, che verranno ripartiti tra i quattro colossi mondiali del settore vaccini), un paio di miliardi di dosi di vaccini sono già preannunciate per contrastare un virus la cui travolgente avanzata continua a latitare ma che viene data per scontata, e perfino in una variante (ceppo virale) più virulenta e aggressiva. Il bello di questo virus A(N1H1) sta proprio in ciò: che su di esso si può scommettere a occhi chiusi. L’arrivo dell’autunno porterà l’ordinaria influenza con le sue altrettanto ordinarie centinaia di migliaia di ammalati e qualche migliaio di morti e allora sarà un bel problema di attribuzione: influenza stagionale o influenza suina? Se pure quella suina se ne attribuirà una quota anche minoritaria, sarà comunque un successo.
Dunque la notizia sta nel fatto che l’influenza suina (influenza pandemica) non ha combinato niente che una qualsiasi altra infezione comunque sopraggiunta non avrebbe saputo combinare. Influenza pandemica A(N1H1), si diceva. Così definita per distinguerla dalle ordinarie influenze stagionali che raggiungono le nostre aree di norma nel periodo centrale dell’autunno-inverno. Distinzione essenziale: le influenze pandemiche non stagionali non si comportano di solito come quelle stagionali, non si manifestano, non hanno picchi e recrudescenze tipicamente collegati al mutare del tempo e delle stagioni come quelle – non a caso – dette stagionali. Ma per quanto definita come pandemica, l’influenza suina viene invece quotidianamente trattata pari pari come una comune influenza stagionale, e infatti se ne prevede, con l’arrivo del cambio di stagione e del brutto tempo, una formidabile recrudescenza autunno-invernale.
E così già si è provveduto a fondere, alquanto impropriamente, i tratti delle due distinte tipologie di influenza.
L’Oms ha smesso pressoché da subito di registrare i casi accertati virologicamente e ha preso a conteggiare i casi comunque diagnosticati, lanciando anche ultimamente cifre di precisione tanto millimetrica quanto miracolosa, del tipo: 210.917 casi nel mondo con un tasso di mortalità di 0,98% che, sol che si abbia un po’ di dimestichezza coi sistemi di rilevazione e registrazione, suonano come una sonora presa per i fondelli.
Ma anche in Italia non si è scherzato. Con un fax trasmesso il 24 luglio 2009 dalla Direzione generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute agli assessorati alla Sanità delle Regioni e, per conoscenza, agli Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera e all’Istituto Superiore di Sanità si è stabilito che: “Considerato l’incremento dei casi di influenza A(N1H1)v (….) non si ritiene più indispensabile la conferma virologica di tutti i casi sospetti”. Seguono disposizioni il cui senso è: ogni affezione respiratoria che dia luogo a una febbre di almeno 38° è considerata influenza suina. Ma anche coi nuovi criteri di manica larga, i casi di influenza suina non sono ancora arrivati a duemila, a letto ci saranno attualmente in tutta Italia sì e no cento persone con questo quadro clinico, ovvero senza un baffo di niente che non sappia procurare la più pigra e indolente delle influenze, l’influenza A(N1H1) non ha ancora fatto il suo primo (vero) morto dal momento della sua comparsa agli inizi di maggio: e questo mentre una comune influenza stagionale nei suoi primi tre mesi mette a letto centinaia di migliaia di persone (quando non milioni) e fa qualcosa come 4-5mila morti – l’uno per cento del totale delle morti annue in Italia.
Qui sta il punto. Dal momento che i sintomi per diagnosticare clinicamente l’influenza suina sono gli stessi che servono a diagnosticare la comune influenza stagionale, e che temporalmente le due influenze saranno perfettamente sovrapponibili, come si potrà distinguere la prima dalla seconda, quando la seconda entrerà in scena? Chi si piglierà la febbre accompagnata da senso di stanchezza e raffreddore o mal di gola in quale categoria verrà inserito, dal momento che la diagnosi virologica dell’influenza suina è stata soppressa alla velocità della luce e quella clinica dell’influenza stagionale presenterà esattamente gli stessi sintomi? E se le classi verranno chiuse quando si presenteranno tre casi, quale scuola si salverà, dal momento che non c’è influenza stagionale che non procuri tre casi in una qualche classe?
Si sta preparando l’affare del secolo (siamo già a una prima stima di dieci miliardi di euro, che verranno ripartiti tra i quattro colossi mondiali del settore vaccini), un paio di miliardi di dosi di vaccini sono già preannunciate per contrastare un virus la cui travolgente avanzata continua a latitare ma che viene data per scontata, e perfino in una variante (ceppo virale) più virulenta e aggressiva. Il bello di questo virus A(N1H1) sta proprio in ciò: che su di esso si può scommettere a occhi chiusi. L’arrivo dell’autunno porterà l’ordinaria influenza con le sue altrettanto ordinarie centinaia di migliaia di ammalati e qualche migliaio di morti e allora sarà un bel problema di attribuzione: influenza stagionale o influenza suina? Se pure quella suina se ne attribuirà una quota anche minoritaria, sarà comunque un successo.
«Il Foglio» del 4 settembre 2009
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