Per il politologo Usa «il terrorismo infrange deliberatamente il tacito accordo a risparmiare i civili: e gli Stati restano disarmati»
di Michael Walzer
L’Iraq, ancora non pacificato, o l’Afghanistan, o il Libano, o Gaza o lo Sri Lanka: si tratta di guerre locali, non mondiali, e questo, almeno, è un piccolo vantaggio per l’umanità.
Ma tutte queste guerre vedono coinvolti soggetti non statali, guerriglieri e terroristi, e si tratta di conflitti che mettono a repentaglio le vite dei civili. È una verità generale che le guerre ci costringono a dibattiti morali, ma è particolarmente vero per questo tipo di conflitti.
Anche coloro i quali rifiutano l’idea che una guerra possa essere morale si trovano ora a parlare di giusto e ingiusto. Il principio centrale dello jus ad bellum è che le guerre dovrebbero essere combattute solo per autodifesa o in difesa di altri. Il principio centrale dello jus in bello è che i civili non dovrebbero mai essere oggetto di un attacco militare e che dovrebbero essere protetti il più possibile dai combattimenti. È il secondo di questi principi, l’immunità del noncombattente, quello più chiamato in causa nelle guerre recenti. I terroristi lo negano, prendendo deliberatamente di mira i civili e anche facendosene scudo nelle controffensive.
Rifiutano e sfruttano al tempo stesso la regola morale secondo cui i noncombattenti non possono essere attaccati, complicando enormemente le cose per i loro avversari. Qual è la risposta giusta nei confronti di nemici che combattono al riparo dei civili? La tesi che proposi nel 1977 è la stessa che proporrei oggi. Si tratta di una revisione della vecchia dottrina cattolica del doppio effetto, secondo la quale quelli che oggi chiamiamo «danni collaterali» sono leciti in guerra quando non sono voluti, quando l’intenzione è soltanto quella di colpire l’obiettivo militare, e quando il danno ai civili è «non sproporzionato» rispetto al valore dell’obiettivo. Ma che cosa significa non volere il danno quando si sa con certezza che quel danno si verificherà? E come si misura la proporzionalità? In passato, la proporzionalità è stata una dottrina permissiva, che giustificava morti e feriti su ampia scala perché dava la priorità al valore dell’obiettivo. Oggi, la proporzionalità è usata generalmente in senso restrittivo, in modo da non consentire in pratica alcun danno collaterale e dunque, spesso, escludere lo stesso attacco militare. Io credo che il test morale fondamentale non sia la proporzionalità; e credo che non sia sufficiente che il secondo effetto, la morte e il ferimento di civili, non sia voluto. Il test cruciale è l’esistenza o meno di una chiara intenzione di evitare, o minimizzare, i danni collaterali.
Quali misure attive hanno preso le forze che effettuano l’attacco per proteggere le vite dei civili? E, cosa più importante, quali rischi accettano di correre tali forze al fine di ridurre i rischi per i civili? È questo il test che applicherei in posti come Gaza, l’Afghanistan e lo Sri Lanka, dove eserciti di uno Stato combattono contro forze terroriste ribelli, e dove i civili sono costantemente in pericolo. Io non so (e credo che non lo sappia nessuno) quale sia un numero di morti tra i civili «non sproporzionato» rispetto all’importanza di fermare gli attacchi terroristici di Hamas, dei Talebani o delle Tigri Tamil.
Dobbiamo esprimere giudizi di questo tipo, che tuttavia non potranno mai essere esatti o definitivi. Possiamo però pretendere da ufficiali e soldati misure forti per tenere basso il numero delle vittime civili.
L’assenza di misure forti dovrebbe essere criticata con decisione.
Perché la teoria della guerra giusta è una teoria critica. Se serve a dirci quando è giusto combattere, allora ci dice anche, probabilmente più spesso, quando è ingiusto combattere. Entrambe le cose sono necessarie. A volte è giusto combattere, e a volte i soldati combattono in modo giusto.
Nessuno che sia cresciuto durante la Seconda guerra mondiale, com’è il mio caso, può dubitare dell’esistenza di guerre giuste, oltre che ingiuste. Ma è altrettanto vero che a volte è sbagliato combattere, e a volte i soldati combattono in modi sbagliati. E dunque è necessario che ogni decisione di scendere in guerra e ogni scelta strategica e tattica vengano discusse. La teoria della guerra giusta è ancora il miglior linguaggio di cui disponiamo per affrontare questi argomenti.
Ma tutte queste guerre vedono coinvolti soggetti non statali, guerriglieri e terroristi, e si tratta di conflitti che mettono a repentaglio le vite dei civili. È una verità generale che le guerre ci costringono a dibattiti morali, ma è particolarmente vero per questo tipo di conflitti.
Anche coloro i quali rifiutano l’idea che una guerra possa essere morale si trovano ora a parlare di giusto e ingiusto. Il principio centrale dello jus ad bellum è che le guerre dovrebbero essere combattute solo per autodifesa o in difesa di altri. Il principio centrale dello jus in bello è che i civili non dovrebbero mai essere oggetto di un attacco militare e che dovrebbero essere protetti il più possibile dai combattimenti. È il secondo di questi principi, l’immunità del noncombattente, quello più chiamato in causa nelle guerre recenti. I terroristi lo negano, prendendo deliberatamente di mira i civili e anche facendosene scudo nelle controffensive.
Rifiutano e sfruttano al tempo stesso la regola morale secondo cui i noncombattenti non possono essere attaccati, complicando enormemente le cose per i loro avversari. Qual è la risposta giusta nei confronti di nemici che combattono al riparo dei civili? La tesi che proposi nel 1977 è la stessa che proporrei oggi. Si tratta di una revisione della vecchia dottrina cattolica del doppio effetto, secondo la quale quelli che oggi chiamiamo «danni collaterali» sono leciti in guerra quando non sono voluti, quando l’intenzione è soltanto quella di colpire l’obiettivo militare, e quando il danno ai civili è «non sproporzionato» rispetto al valore dell’obiettivo. Ma che cosa significa non volere il danno quando si sa con certezza che quel danno si verificherà? E come si misura la proporzionalità? In passato, la proporzionalità è stata una dottrina permissiva, che giustificava morti e feriti su ampia scala perché dava la priorità al valore dell’obiettivo. Oggi, la proporzionalità è usata generalmente in senso restrittivo, in modo da non consentire in pratica alcun danno collaterale e dunque, spesso, escludere lo stesso attacco militare. Io credo che il test morale fondamentale non sia la proporzionalità; e credo che non sia sufficiente che il secondo effetto, la morte e il ferimento di civili, non sia voluto. Il test cruciale è l’esistenza o meno di una chiara intenzione di evitare, o minimizzare, i danni collaterali.
Quali misure attive hanno preso le forze che effettuano l’attacco per proteggere le vite dei civili? E, cosa più importante, quali rischi accettano di correre tali forze al fine di ridurre i rischi per i civili? È questo il test che applicherei in posti come Gaza, l’Afghanistan e lo Sri Lanka, dove eserciti di uno Stato combattono contro forze terroriste ribelli, e dove i civili sono costantemente in pericolo. Io non so (e credo che non lo sappia nessuno) quale sia un numero di morti tra i civili «non sproporzionato» rispetto all’importanza di fermare gli attacchi terroristici di Hamas, dei Talebani o delle Tigri Tamil.
Dobbiamo esprimere giudizi di questo tipo, che tuttavia non potranno mai essere esatti o definitivi. Possiamo però pretendere da ufficiali e soldati misure forti per tenere basso il numero delle vittime civili.
L’assenza di misure forti dovrebbe essere criticata con decisione.
Perché la teoria della guerra giusta è una teoria critica. Se serve a dirci quando è giusto combattere, allora ci dice anche, probabilmente più spesso, quando è ingiusto combattere. Entrambe le cose sono necessarie. A volte è giusto combattere, e a volte i soldati combattono in modo giusto.
Nessuno che sia cresciuto durante la Seconda guerra mondiale, com’è il mio caso, può dubitare dell’esistenza di guerre giuste, oltre che ingiuste. Ma è altrettanto vero che a volte è sbagliato combattere, e a volte i soldati combattono in modi sbagliati. E dunque è necessario che ogni decisione di scendere in guerra e ogni scelta strategica e tattica vengano discusse. La teoria della guerra giusta è ancora il miglior linguaggio di cui disponiamo per affrontare questi argomenti.
«Avvenire» del 4 settembre 2009
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