Le veline lo sbagliano, i giornalisti lo snobbano e su Facebook c’è chi vuole difenderlo dall’estinzione. Un saggio di due affermati linguisti ribalta la questione: è in salute e sulla bocca di tutti (o quasi)
di Luigi Mascheroni
Il congiuntivo è un elegante modo verbale che serve a indicare un’azione incerta, ipotizzabile, desiderata, dubbia. È per questo, probabilmente, che il suo uso è così soggettivo: c’è chi rispetta le regole grammaticali e chi no, a volte per vezzo altre per vizio, in maniera sintatticamente trasversale rispetto al livello socio-culturale del soggetto, parlante o scrivente che sia, dalla velina all’intellettuale. Non è rimasta nella storia della televisione, e di per sé neppure della lingua italiana, ma è rivelatrice di una tendenza nazional-popolare, quella volta che Manuela Arcuri - qui simbolicamente assurta a grado zero della scrittura - a un festival di Sanremo, per poter dimostrare le sue doti chiromantiche, chiese a Pippo Baudo, tenendogli al mano: «Vuoi che te la leggo?», così come non è rimasta nella storia del giornalismo, e di per sé neppure della lingua italiana, ma è ugualmente rivelatrice di una tendenza radical-chic, la volta che Eugenio Scalfari - qui ironicamente assurto a grado massimo della scrittura - su Repubblica, iniziò un editoriale con la sentenza: «Credo che Dio è un’invenzione della mente».
Di certo il congiuntivo è un’invenzione diabolica della lingua, ed è indicativo che ci passino sopra celebri penne e anonimi ignoranti. Il comune senso dell’errore. Come ha fatto notare tempo fa Filippo Facci, che non è un congiuntivo sbagliato ma un giornalista, Giuliano Ferrara una volta, sul Foglio, in venti righe piazzò dentro un «Penso che quella è stata ed è una guerra giusta», un «Penso che è una benedizione» e un «Penso che la guerra americana non ha decretato il terrorismo». Il maestro Ferrara quel giorno, platealmente, decise di abolire il congiuntivo nella lingua scritta. Recentemente un altro intellos, l’assessore alla cultura di una ridente metropoli lombarda, ha concluso la sua prima conferenza stampa con un emozionato «Vorrei che la cultura si dasse questa dimensione anagrafica», abolendolo (almeno nella sua forma corretta) anche nella lingua parlata e dimostrando che, così come il congiuntivo non è a esclusivo appannaggio delle subordinate, il suo uso scorretto non lo è dei subacculturati. Se Paolo Virzì - uno che per Ovosodo, nel 1997, scelse come protagonista un ragazzo cresciuto in un quartiere popolare di Livorno dove «basta un congiuntivo di più e sei bollato come finocchio» - nel recente Tutta la vita davanti ha messo in bocca alla splendida Sabrina Ferilli, burina quarantenne in carriera, la traballante battuta «Sabato inauguro la mia nuova casa... Vorrei che ci sei anche tu», significa che la congiunzione tra persona ignorante ed errore grammaticale è solo un luogo comune, e come tale falso.
Come è falso il luogo comune che dà ormai per morto il congiuntivo, ammazzato dalla televisione, dai nuovi media, dall’analfabetismo di ritorno, da Aldo Biscardi e dal suo emulo Marco Mazzocchi che si dà molto da fare «Ma credo che non ce la fa», i quali giornalisti, comunque, svettano come docenti di Filologia romanza rispetto a quel tale ministro della Pubblica istruzione che, anni fa, al Tg2 dichiarò «Vorrei che ne parliamo» e poi, a un giornale che gliene chiedeva conto, puntualizzò: «Non è colpa mia se la prima persona plurale dell’indicativo e del congiuntivo presente sono uguali: parliamo». E parliamone, basta che vi decidete.
Censori e lodatori del bel tempo andato non fanno che vergare elogi e necrologi del congiuntivo: salviamolo, aiutiamolo, preserviamolo... Il fatto è che generalmente le associazioni e le campagne a salvaguardia di qualcosa nascono quando quella cosa è già a un passo dall’estinzione, o è già morta. Più che a difendere servono a tramandare la memoria. Ecco perché non crediamo ai comitati come il «Sic», «Salviamo il congiuntivo», che da un paio d’anni vigila nel Web, o alla comunità attiva su Facebook «Lottiamo contro la scomparsa del congiuntivo», la quale pure conta quasi centomila aderenti. Preferiamo fidarci, per stare dalla parte degli integrati e non degli apocalittici della comunicazione, di un libro come Viva il congiuntivo (Sperling&Kupfer), scritto da Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, che dimostra sorprendentemente come in realtà il congiuntivo - eretto da cruscanti, intellettuali, vecchie maestrine a riposo a ultima estrema barriera contro il degrado della nostra lingua - goda in realtà ottima salute. Se la lingua italiana, scritta e parlata, si appiattisce, è per ben altri motivi. Non per un eventuale congiuntivo sbagliato. Come diceva Totò, «Ma mi facci il piacere».
Macché vilipeso, ignorato, dimenticato. Qualcuno rimarrà deluso. Ma il congiuntivo sopravvive benissimo, a scherno di Alberto Moravia che lo voleva assassinare, degli intellettuali snob che gli preferiscono modi meno eleganti ma a loro dire più efficaci, e persino di Antonio Di Pietro e di Antonella Elia la quale, tramandano le cronache, all’Isola dei famosi sgranò gli occhi, spaesata, di fronte a un congiuntivo corretto di Aida Yespica.
Presente, imperfetto, passato o trapassato che sia, sia stato, fosse o fosse stato, il congiuntivo oggi viene sostituito dall’indicativo molto meno di quanto si pensi. E quando ciò accade, in molti casi la sostituzione è considerata tollerabile. Ed è proprio perché ancora parla e lotta insieme a quasi tutti noi, che ci permettiamo questo sperticato elogio - in vita - del congiuntivo. Consapevoli, peraltro, del fatto che l’uso, l’abuso o il disuso di tale raffinato modo verbale sia (o è, a seconda) un argomento amatissimo dalla stampa: spulciando negli archivi storici dei grandi quotidiani italiani dell’ultimo decennio, si scopre che il tema «congiuntivo» viene affrontato, in media, dieci volte l’anno. Quasi più del surriscaldamento globale e dello scioglimento dei ghiacciai, notizie notoriamente di ben maggiore urgenza per la vita sociale del pianeta.
Il congiuntivo è un gioiello della lingua italiana, che non si deve aver paura di sfoggiare in ogni occasione, basta saperlo abbinare nel modo giusto. Il congiuntivo è una bella donna: vezzosa, elegante, esigente. Difficile da accontentare ma che fa la sua figura. Perché rinunciarvi, quando ci si offre come quell’indimenticabile signora riminese di felliniana memoria la quale, al principe reale nella suite del Gran Hotel, si rivolse, umilmente, con un esortativo: «Eccellenza, gradisca...».
Di certo il congiuntivo è un’invenzione diabolica della lingua, ed è indicativo che ci passino sopra celebri penne e anonimi ignoranti. Il comune senso dell’errore. Come ha fatto notare tempo fa Filippo Facci, che non è un congiuntivo sbagliato ma un giornalista, Giuliano Ferrara una volta, sul Foglio, in venti righe piazzò dentro un «Penso che quella è stata ed è una guerra giusta», un «Penso che è una benedizione» e un «Penso che la guerra americana non ha decretato il terrorismo». Il maestro Ferrara quel giorno, platealmente, decise di abolire il congiuntivo nella lingua scritta. Recentemente un altro intellos, l’assessore alla cultura di una ridente metropoli lombarda, ha concluso la sua prima conferenza stampa con un emozionato «Vorrei che la cultura si dasse questa dimensione anagrafica», abolendolo (almeno nella sua forma corretta) anche nella lingua parlata e dimostrando che, così come il congiuntivo non è a esclusivo appannaggio delle subordinate, il suo uso scorretto non lo è dei subacculturati. Se Paolo Virzì - uno che per Ovosodo, nel 1997, scelse come protagonista un ragazzo cresciuto in un quartiere popolare di Livorno dove «basta un congiuntivo di più e sei bollato come finocchio» - nel recente Tutta la vita davanti ha messo in bocca alla splendida Sabrina Ferilli, burina quarantenne in carriera, la traballante battuta «Sabato inauguro la mia nuova casa... Vorrei che ci sei anche tu», significa che la congiunzione tra persona ignorante ed errore grammaticale è solo un luogo comune, e come tale falso.
Come è falso il luogo comune che dà ormai per morto il congiuntivo, ammazzato dalla televisione, dai nuovi media, dall’analfabetismo di ritorno, da Aldo Biscardi e dal suo emulo Marco Mazzocchi che si dà molto da fare «Ma credo che non ce la fa», i quali giornalisti, comunque, svettano come docenti di Filologia romanza rispetto a quel tale ministro della Pubblica istruzione che, anni fa, al Tg2 dichiarò «Vorrei che ne parliamo» e poi, a un giornale che gliene chiedeva conto, puntualizzò: «Non è colpa mia se la prima persona plurale dell’indicativo e del congiuntivo presente sono uguali: parliamo». E parliamone, basta che vi decidete.
Censori e lodatori del bel tempo andato non fanno che vergare elogi e necrologi del congiuntivo: salviamolo, aiutiamolo, preserviamolo... Il fatto è che generalmente le associazioni e le campagne a salvaguardia di qualcosa nascono quando quella cosa è già a un passo dall’estinzione, o è già morta. Più che a difendere servono a tramandare la memoria. Ecco perché non crediamo ai comitati come il «Sic», «Salviamo il congiuntivo», che da un paio d’anni vigila nel Web, o alla comunità attiva su Facebook «Lottiamo contro la scomparsa del congiuntivo», la quale pure conta quasi centomila aderenti. Preferiamo fidarci, per stare dalla parte degli integrati e non degli apocalittici della comunicazione, di un libro come Viva il congiuntivo (Sperling&Kupfer), scritto da Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, che dimostra sorprendentemente come in realtà il congiuntivo - eretto da cruscanti, intellettuali, vecchie maestrine a riposo a ultima estrema barriera contro il degrado della nostra lingua - goda in realtà ottima salute. Se la lingua italiana, scritta e parlata, si appiattisce, è per ben altri motivi. Non per un eventuale congiuntivo sbagliato. Come diceva Totò, «Ma mi facci il piacere».
Macché vilipeso, ignorato, dimenticato. Qualcuno rimarrà deluso. Ma il congiuntivo sopravvive benissimo, a scherno di Alberto Moravia che lo voleva assassinare, degli intellettuali snob che gli preferiscono modi meno eleganti ma a loro dire più efficaci, e persino di Antonio Di Pietro e di Antonella Elia la quale, tramandano le cronache, all’Isola dei famosi sgranò gli occhi, spaesata, di fronte a un congiuntivo corretto di Aida Yespica.
Presente, imperfetto, passato o trapassato che sia, sia stato, fosse o fosse stato, il congiuntivo oggi viene sostituito dall’indicativo molto meno di quanto si pensi. E quando ciò accade, in molti casi la sostituzione è considerata tollerabile. Ed è proprio perché ancora parla e lotta insieme a quasi tutti noi, che ci permettiamo questo sperticato elogio - in vita - del congiuntivo. Consapevoli, peraltro, del fatto che l’uso, l’abuso o il disuso di tale raffinato modo verbale sia (o è, a seconda) un argomento amatissimo dalla stampa: spulciando negli archivi storici dei grandi quotidiani italiani dell’ultimo decennio, si scopre che il tema «congiuntivo» viene affrontato, in media, dieci volte l’anno. Quasi più del surriscaldamento globale e dello scioglimento dei ghiacciai, notizie notoriamente di ben maggiore urgenza per la vita sociale del pianeta.
Il congiuntivo è un gioiello della lingua italiana, che non si deve aver paura di sfoggiare in ogni occasione, basta saperlo abbinare nel modo giusto. Il congiuntivo è una bella donna: vezzosa, elegante, esigente. Difficile da accontentare ma che fa la sua figura. Perché rinunciarvi, quando ci si offre come quell’indimenticabile signora riminese di felliniana memoria la quale, al principe reale nella suite del Gran Hotel, si rivolse, umilmente, con un esortativo: «Eccellenza, gradisca...».
«Il Giornale» del 22 settembre 2009
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