Il filosofo inglese Roger Scruton: la ricerca dell’innovazione porta al culto del nichilismo
di Marco Respinti
I gusti non si discutono, ma peggior frescaccia di questa non fu mai scritta. Ne è graniticamente convinto, e lo dice, e lo illustra, il filosofo conservatore inglese Roger Scruton, uno dei massimi pensatori contemporanei, nel suo Beauty (Oxford University Press, pagg. 220, sterline 10,99). Titolo asciutto, volutamente minimalista, intenzionalmente laconico perché è inutile fare giri di parole ridondanti quando - come diceva l’esploratrice e scrittrice britannica Freya Stark (1893-1993) -, l’unica cosa da fare in questa vita è chiamare le cose con il loro nome.
«Il degrado dell’arte non è mai stato più evidente» che oggi, scrive Scruton. Ma «la bellezza è un valore reale e universale, radicato nella nostra natura umana». Insomma attingibile, conoscibile e quindi comunicabile, insegnabile, persino plasmabile. Il filosofo inglese lo scrive all’inizio del suo libro e lo ripete fino alla fine. Cita persino l’idea del pulchrum oggettivo, antica quanto Platone e le Enneadi di Plotino, ne espone la «versione cristiana» elaborata da san Tommaso d’Aquino, che della bellezza fa un concetto trascendentale, tutt’uno, e «convertibile», con la giustizia, la bontà, la verità della perfezione dell’essere divino. Per forza Scruton ha spaccato, ancora una volta, la bolgia dei commentatori, degli opinionisti e dei critici in due metà contrapposte, chi volentieri lo lapiderebbe sulla pubblica piazza e chi invece lo osanna per il suo ritorno a concetti chiari e distinti ancorché démodé. Un vero reazionario, insomma, ma Scruton non se ne vergogna affatto. Anzi. Sono anni che attacca frontalmente il culto del brutto tipico di chi progetta le città in cui siamo per forza di cose costretti tutti a vivere, il cupio dissolvi palpabile nella stragrande maggioranza degli «artisti» contemporanei, la vanagloria nichilista delle cosiddette «archistar».
Il bello (appunto) è però che Scruton lo fa con il candore della colomba, oltre che con l’astuzia del serpente a cui lo hanno temprato decenni di protagonismo sul proscenio della vita culturale, accademica e anche politica.
Il suo Beauty è un piccolo capolavoro. È un libro di filosofia scritto da un filosofo professionista, anzi vero, ma si lascia leggere da tutti, pure da chi di filosofia quotidianamente ne mastica poca. È un libro assertivo e al contempo dolce. Non si vergogna delle proprie convinzioni, e questo soprattutto perché le spiega, le argomenta, le giustifica. Spavaldo lo è per certo, e in questo Scruton potrebbe ricordare l’affascinante altezzosità di un Evelyn Waugh, ma è pure gentile, non lontano da un Alfred Lord Tennyson. La sua è la virtù dei forti, la calma. Ci vuole ben poco, scrive infatti il filosofo inglese, per riconoscere quanto orrende siano le produzioni «artistiche» che ci circondano, le costruzioni che sul capo c’incombono, le composizioni musicali che ci aggrediscono.
Però Beauty, per tranchant che sia, resta un libro di ricerca, come (da anni) in costante sviluppo è l’intero pensiero scrutoniano. Il libro pone soprattutto, e bene, delle domande, abbozzando più che altro impostazioni critiche, non perfette risposte conclusive. Intriso di riferimenti e di ripensamenti sulle teorie estetiche elaborate da Edmund Burke, Immanuel Kant e Thomas Stearns Eliot, Beauty è scritto e illustrato con linguaggio che non è troppo definire religioso, persino liturgico (né poteva essere altrimenti in un libro sulla bellezza): quel pervadente senso del sacro che è non confessionale giacché preconfessionale, che è autenticamente laico - un Matthew Arnold lo sottoscriverebbe - e che sarebbe il tessuto proprio di ogni filosofia rispettabile, se il pensiero occidentale non avesse da tempo smarrito il nord. Una filosofia naturalis, si aggettivava un tempo, ma anche questo ora sa di reazionario.
Quella che ci circonda Scruton la chiama «rivoluzione modernista», e cordialmente la detesta. Fu annunciata da una involuzione premodernista dell’arte che ha mutato l’estetica in estetismo e reso effimera la percezione umana del bello. Il risultato è devastante: «L’arte si ribella alle antiche convenzioni, giusto in tempo per essere colonizzata dal kitsch». Nasce tutto da un vizio mentale e culturale, «l’incessante ricerca dell’innovazione artistica» che «porta al culto del nichilismo». Così, «il tentativo di difendere la bellezza dal kitsch premodernistico, l’ha esposta alla dissacrazione postmoderna», imponendo al mondo «due forme di sacrilegio» contrapposte ma in realtà solidali, «sogni zuccherosi» da un lato e «fantasie selvagge» dall’altro. Ma «sono entrambe forme di falsità, modi per ridurre e rattrappire la nostra umanità», dal momento che «implicano il rifiuto delle forme più elevate di vita», il cui segno principale è appunto, da sempre, proprio la bellezza.
Al contrario, scrive Scruton, «la vera arte invoca la nostra natura più nobile», è il «tentativo di affermare l’esistenza di quell’altro regno in cui a prevalere sono l’ordine morale e l’ordine spirituale». Infatti, «l’arte, così come noi la conosciamo, sta sulla soglia del trascendente». Nessun uomo che abbia un’idea di bellezza, scrive il filosofo, «è privo di un concetto di redenzione, ovvero di un trascendere ultimo del disordine del mondo mortale in un “regno dei fini”».
Alla gogna il «mi piace» e il «secondo me», dunque. L’idea forte, fortissima è qui quella del fondamento razionale del giudizio estetico, ineliminabile dalla natura umana. Scruton taglia trasversalmente l’annosa questione delle qualità delle cose, la dicotomia centrale alla riflessione estetica moderna che divide i filosofi tra quanti affermano che le qualità risiedono nell’oggetto e quanti le considerano solo percezioni del soggetto. Per il filosofo inglese, invece, la bellezza (della natura, dell’opera d’arte, del corpo umano, persino della sua intima struttura cellulare) è l’occasione, il segno e il momento dell’incontro tra un soggetto e un oggetto. Un fatto impattante, traumatico che però la ragione umana è in grado di sopportare benissimo. Anzi, la ragione è fatta proprio per coglierla, la bellezza, così come il bello è fatto per essere scoperto, ammirato. La ragione è insomma perfettamente adeguata alla bellezza data, che è data apposta alla ragione umana. Corrispondenza amorevole di sensi.
Sul punto Scruton non ha ancora finito di meditare. Ora che però ha circoscritto il campo, continuerà, alla fine di Beauty quasi lo promette. Ma il più è davvero fatto.
«Il degrado dell’arte non è mai stato più evidente» che oggi, scrive Scruton. Ma «la bellezza è un valore reale e universale, radicato nella nostra natura umana». Insomma attingibile, conoscibile e quindi comunicabile, insegnabile, persino plasmabile. Il filosofo inglese lo scrive all’inizio del suo libro e lo ripete fino alla fine. Cita persino l’idea del pulchrum oggettivo, antica quanto Platone e le Enneadi di Plotino, ne espone la «versione cristiana» elaborata da san Tommaso d’Aquino, che della bellezza fa un concetto trascendentale, tutt’uno, e «convertibile», con la giustizia, la bontà, la verità della perfezione dell’essere divino. Per forza Scruton ha spaccato, ancora una volta, la bolgia dei commentatori, degli opinionisti e dei critici in due metà contrapposte, chi volentieri lo lapiderebbe sulla pubblica piazza e chi invece lo osanna per il suo ritorno a concetti chiari e distinti ancorché démodé. Un vero reazionario, insomma, ma Scruton non se ne vergogna affatto. Anzi. Sono anni che attacca frontalmente il culto del brutto tipico di chi progetta le città in cui siamo per forza di cose costretti tutti a vivere, il cupio dissolvi palpabile nella stragrande maggioranza degli «artisti» contemporanei, la vanagloria nichilista delle cosiddette «archistar».
Il bello (appunto) è però che Scruton lo fa con il candore della colomba, oltre che con l’astuzia del serpente a cui lo hanno temprato decenni di protagonismo sul proscenio della vita culturale, accademica e anche politica.
Il suo Beauty è un piccolo capolavoro. È un libro di filosofia scritto da un filosofo professionista, anzi vero, ma si lascia leggere da tutti, pure da chi di filosofia quotidianamente ne mastica poca. È un libro assertivo e al contempo dolce. Non si vergogna delle proprie convinzioni, e questo soprattutto perché le spiega, le argomenta, le giustifica. Spavaldo lo è per certo, e in questo Scruton potrebbe ricordare l’affascinante altezzosità di un Evelyn Waugh, ma è pure gentile, non lontano da un Alfred Lord Tennyson. La sua è la virtù dei forti, la calma. Ci vuole ben poco, scrive infatti il filosofo inglese, per riconoscere quanto orrende siano le produzioni «artistiche» che ci circondano, le costruzioni che sul capo c’incombono, le composizioni musicali che ci aggrediscono.
Però Beauty, per tranchant che sia, resta un libro di ricerca, come (da anni) in costante sviluppo è l’intero pensiero scrutoniano. Il libro pone soprattutto, e bene, delle domande, abbozzando più che altro impostazioni critiche, non perfette risposte conclusive. Intriso di riferimenti e di ripensamenti sulle teorie estetiche elaborate da Edmund Burke, Immanuel Kant e Thomas Stearns Eliot, Beauty è scritto e illustrato con linguaggio che non è troppo definire religioso, persino liturgico (né poteva essere altrimenti in un libro sulla bellezza): quel pervadente senso del sacro che è non confessionale giacché preconfessionale, che è autenticamente laico - un Matthew Arnold lo sottoscriverebbe - e che sarebbe il tessuto proprio di ogni filosofia rispettabile, se il pensiero occidentale non avesse da tempo smarrito il nord. Una filosofia naturalis, si aggettivava un tempo, ma anche questo ora sa di reazionario.
Quella che ci circonda Scruton la chiama «rivoluzione modernista», e cordialmente la detesta. Fu annunciata da una involuzione premodernista dell’arte che ha mutato l’estetica in estetismo e reso effimera la percezione umana del bello. Il risultato è devastante: «L’arte si ribella alle antiche convenzioni, giusto in tempo per essere colonizzata dal kitsch». Nasce tutto da un vizio mentale e culturale, «l’incessante ricerca dell’innovazione artistica» che «porta al culto del nichilismo». Così, «il tentativo di difendere la bellezza dal kitsch premodernistico, l’ha esposta alla dissacrazione postmoderna», imponendo al mondo «due forme di sacrilegio» contrapposte ma in realtà solidali, «sogni zuccherosi» da un lato e «fantasie selvagge» dall’altro. Ma «sono entrambe forme di falsità, modi per ridurre e rattrappire la nostra umanità», dal momento che «implicano il rifiuto delle forme più elevate di vita», il cui segno principale è appunto, da sempre, proprio la bellezza.
Al contrario, scrive Scruton, «la vera arte invoca la nostra natura più nobile», è il «tentativo di affermare l’esistenza di quell’altro regno in cui a prevalere sono l’ordine morale e l’ordine spirituale». Infatti, «l’arte, così come noi la conosciamo, sta sulla soglia del trascendente». Nessun uomo che abbia un’idea di bellezza, scrive il filosofo, «è privo di un concetto di redenzione, ovvero di un trascendere ultimo del disordine del mondo mortale in un “regno dei fini”».
Alla gogna il «mi piace» e il «secondo me», dunque. L’idea forte, fortissima è qui quella del fondamento razionale del giudizio estetico, ineliminabile dalla natura umana. Scruton taglia trasversalmente l’annosa questione delle qualità delle cose, la dicotomia centrale alla riflessione estetica moderna che divide i filosofi tra quanti affermano che le qualità risiedono nell’oggetto e quanti le considerano solo percezioni del soggetto. Per il filosofo inglese, invece, la bellezza (della natura, dell’opera d’arte, del corpo umano, persino della sua intima struttura cellulare) è l’occasione, il segno e il momento dell’incontro tra un soggetto e un oggetto. Un fatto impattante, traumatico che però la ragione umana è in grado di sopportare benissimo. Anzi, la ragione è fatta proprio per coglierla, la bellezza, così come il bello è fatto per essere scoperto, ammirato. La ragione è insomma perfettamente adeguata alla bellezza data, che è data apposta alla ragione umana. Corrispondenza amorevole di sensi.
Sul punto Scruton non ha ancora finito di meditare. Ora che però ha circoscritto il campo, continuerà, alla fine di Beauty quasi lo promette. Ma il più è davvero fatto.
«Il Giornale» del 23 settembre 2009
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