Parla il filosofo Adriano Fabris: «La serie degli attacchi personali mina alle basi la credibilità dell’intera informazione»
di Edoardo Castagna
« È la sindrome del 'muoia Sansone con tutti i Filistei'. Con Boffo si è cercato consapevolmente di minare alla base la credibilità di un giornalista: ma questo conduce alla guerra di tutti contro tutti, con direttori di giornali impegnati non a cercare la verità, ma a scovare i retroscena – veri o presunti – della vita dei colleghi. Così è l’intera categoria a perdere credibilità; l’informazione diventa spettacolo e ognuno recita la sua parte nel gran teatro. È la morte del vero giornalismo». Secondo Adriano Fabris, docente di Filosofia morale all’Università di Pisa e autore, tra l’altro, del saggio Etica della comunicazione, la deriva 'barbarica' della stampa italiana negli ultimi mesi è la logica conseguenza di due premesse in azione già da tempo: «La prima è la sempre maggiore spettacolarizzazione dell’informazione, che 'funziona' soltanto se colpisce l’attenzione dando – appunto – spettacolo. Ma ogni spettacolo, per reggere, deve incuriosire: e ciò che incuriosisce il grande pubblico è purtroppo ciò che solletica gli istinti più bassi».
E la seconda?
«La crescente trasformazione dell’informazione da fine in sé a qualcosa di strumentale ad altro. Ecco allora che viene meno la dignità stessa del giornalista, della sua funzione e della sua importanza. Oggi è questo ciò che l’Italia rischia di giocarsi. La credibilità del giornalista è quella di una persona che non solo dice la verità – naturalmente letta dal suo punto di vista –, ma che si dimostra anche verace, che nel suo mestiere ci mette la faccia».
Quindi, cercare di fargli 'perdere la faccia'...
«...significa cercare di annullare la credibilità di ciò che dice, indipendentemente da ogni contenuto. Il calo delle vendite registrato dai giornali negli ultimi anni dipende anche da questa deriva, anche se non è l’unico fattore».
Che cos’altro influisce?
«La concorrenza di internet, che offre la possibilità di avere un’informazione più partecipata e interattiva».
Ma non c’è un problema di credibilità anche nella Rete, dove non si conoscono mai le reali credenziali di chi scrive?
«Certo. In effetti la situazione in cui ci troviamo è molto complessa. Ora, io non credo che sia imminente la pubblicazione dell’ultima copia cartacea del New York Times, come profetizza qualcuno, perché la storia della comunicazione cammina per aggiunte e non per sostituzioni. Tuttavia anche l’informazione offerta dalla Rete non è esente da problemi. L’internet di prima generazione offriva effettivamente al lettore la possibilità di trovare anche notizie solitamente trascurate dalle agende tradizionali del giornalismo – per esempio quel che accade in Africa, cui soltanto Avvenire, tra i grandi quotidiani italiani, dà spazio. La Rete ha svolto un certo ruolo di supplenza, ma al prezzo di delegare la selezione delle informazioni al navigatore. Con il web 2.0 le cose si sono ulteriormente complicate, proprio a causa dell’interattività che ha introdotto. È sempre più difficile effettuare il necessario controllo incrociato delle notizie, il vaglio delle fonti: cioè il lavoro proprio del giornalista, quello fatto andando direttamente sul luogo ad accertare i fatti».
Invece, le fonti usate nelle campagne degli ultimi mesi sono state spesso tutt’altre: lettere anonime, dicerie, pettegolezzi...
«Oggi siamo sommersi dalle notizie; ce ne sono troppe, viviamo un’overdose di informazione. Tutta messa sullo stesso piano: notizie vere e notizie false, notizie mezze vere e notizie che contengono appena un barlume di verità... Orientarsi è difficile, anche per il giornalista, che tuttavia spesso indulge a dar più peso alla propria lettura che al fatto originario. L’interpretazione rischia di avere il sopravvento sulla verità perché – specie se costruita ad arte – nel supermercato dell’informazione di oggi facilmente prende il posto della notizia».
C’è chi pensa che sia a rischio la stessa libertà di stampa...
«Io temo che nel nostro tempo si giochi troppo con la parola 'libertà', stiracchiandola, fraintendendola, riempiendola con tutta la molteplicità di significati che può assumere. No, non credo che la libertà di stampa sia in pericolo: o almeno, non nel senso di avere la più ampia possibilità di scelta nel supermercato dell’informazione. Un pericolo c’è, ma non è di quantità o di varietà: è di etica. Questa è oggi la cosa più importante da fare: rilanciare e rifondare con forza un’etica del giornalismo. È una responsabilità comune: per questo stiamo lavorando al progetto di un Manifesto di etica del giornalismo, che speriamo di presentare ufficialmente quest’autunno in occasione dell’anniversario della fondazione dell’Ucsi, l’Unione cattolica stampa italiana».
Invece, non le sembra che si sia persa ogni distinzione di genere, con stampa scandalistica e quotidiani d’informazione che si rincorrono nello spiare dai buchi della serratura?
«Sì, è anche di questo che si tratta oggi. Infotainment, informazione e spettacolo mescolati fino a essere indistinguibili, fino a perdere ogni distinzione tra verità e interpretazione, tra notizia e spettacolo. Certo, per rendere gradevole una notizia bisogna anche scriverla bene, con abilità retorica: ma la notizia, di per sé, non può essere occasione di intrattenimento. Invece siamo ormai abituati alla spettacolarizzazione di processi e fatti di sangue... ritornano stranamente d’attualità le pagine di sant’Agostino sui giochi circensi».
E la seconda?
«La crescente trasformazione dell’informazione da fine in sé a qualcosa di strumentale ad altro. Ecco allora che viene meno la dignità stessa del giornalista, della sua funzione e della sua importanza. Oggi è questo ciò che l’Italia rischia di giocarsi. La credibilità del giornalista è quella di una persona che non solo dice la verità – naturalmente letta dal suo punto di vista –, ma che si dimostra anche verace, che nel suo mestiere ci mette la faccia».
Quindi, cercare di fargli 'perdere la faccia'...
«...significa cercare di annullare la credibilità di ciò che dice, indipendentemente da ogni contenuto. Il calo delle vendite registrato dai giornali negli ultimi anni dipende anche da questa deriva, anche se non è l’unico fattore».
Che cos’altro influisce?
«La concorrenza di internet, che offre la possibilità di avere un’informazione più partecipata e interattiva».
Ma non c’è un problema di credibilità anche nella Rete, dove non si conoscono mai le reali credenziali di chi scrive?
«Certo. In effetti la situazione in cui ci troviamo è molto complessa. Ora, io non credo che sia imminente la pubblicazione dell’ultima copia cartacea del New York Times, come profetizza qualcuno, perché la storia della comunicazione cammina per aggiunte e non per sostituzioni. Tuttavia anche l’informazione offerta dalla Rete non è esente da problemi. L’internet di prima generazione offriva effettivamente al lettore la possibilità di trovare anche notizie solitamente trascurate dalle agende tradizionali del giornalismo – per esempio quel che accade in Africa, cui soltanto Avvenire, tra i grandi quotidiani italiani, dà spazio. La Rete ha svolto un certo ruolo di supplenza, ma al prezzo di delegare la selezione delle informazioni al navigatore. Con il web 2.0 le cose si sono ulteriormente complicate, proprio a causa dell’interattività che ha introdotto. È sempre più difficile effettuare il necessario controllo incrociato delle notizie, il vaglio delle fonti: cioè il lavoro proprio del giornalista, quello fatto andando direttamente sul luogo ad accertare i fatti».
Invece, le fonti usate nelle campagne degli ultimi mesi sono state spesso tutt’altre: lettere anonime, dicerie, pettegolezzi...
«Oggi siamo sommersi dalle notizie; ce ne sono troppe, viviamo un’overdose di informazione. Tutta messa sullo stesso piano: notizie vere e notizie false, notizie mezze vere e notizie che contengono appena un barlume di verità... Orientarsi è difficile, anche per il giornalista, che tuttavia spesso indulge a dar più peso alla propria lettura che al fatto originario. L’interpretazione rischia di avere il sopravvento sulla verità perché – specie se costruita ad arte – nel supermercato dell’informazione di oggi facilmente prende il posto della notizia».
C’è chi pensa che sia a rischio la stessa libertà di stampa...
«Io temo che nel nostro tempo si giochi troppo con la parola 'libertà', stiracchiandola, fraintendendola, riempiendola con tutta la molteplicità di significati che può assumere. No, non credo che la libertà di stampa sia in pericolo: o almeno, non nel senso di avere la più ampia possibilità di scelta nel supermercato dell’informazione. Un pericolo c’è, ma non è di quantità o di varietà: è di etica. Questa è oggi la cosa più importante da fare: rilanciare e rifondare con forza un’etica del giornalismo. È una responsabilità comune: per questo stiamo lavorando al progetto di un Manifesto di etica del giornalismo, che speriamo di presentare ufficialmente quest’autunno in occasione dell’anniversario della fondazione dell’Ucsi, l’Unione cattolica stampa italiana».
Invece, non le sembra che si sia persa ogni distinzione di genere, con stampa scandalistica e quotidiani d’informazione che si rincorrono nello spiare dai buchi della serratura?
«Sì, è anche di questo che si tratta oggi. Infotainment, informazione e spettacolo mescolati fino a essere indistinguibili, fino a perdere ogni distinzione tra verità e interpretazione, tra notizia e spettacolo. Certo, per rendere gradevole una notizia bisogna anche scriverla bene, con abilità retorica: ma la notizia, di per sé, non può essere occasione di intrattenimento. Invece siamo ormai abituati alla spettacolarizzazione di processi e fatti di sangue... ritornano stranamente d’attualità le pagine di sant’Agostino sui giochi circensi».
«Avvenire» dell'11 settembre 2009
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