Il cromatismo dell’impero contraddice Winckelmann e gli affreschi nelle case esprimono un’idea di eternità
di Maurizio Cecchetti
Il merito di questa mostra che si è aperta nei giorni scorsi alle Scuderie del Quirinale sta quasi tutto in un’intuizione riguardo al modo di esporre la pittura della Roma imperiale come se si trattasse di pittura contemporanea. A volte la semplicità ha qualcosa di rivoluzionario, cambia il modo di guardare ciò che, in fondo, è sempre stato sotto i nostri occhi. Gran parte delle opere esposte vengono dall’Archeologico di Napoli, da Pompei, dai Musei Vaticani, dal Museo nazionale romano, dall’Antiquarium, luoghi dove si può supporre che chi ama questo tipo di pittura si sia recato almeno una volta in passato e quindi possieda una memoria di cose 'già viste'. Ed ecco che allora il vederle insieme fa la differenza: soprattutto, la fa il modo di metterle l’una accanto all’altra. Va apprezzato il principio, oggi poco praticato da chi organizza mostre di studio, di esporre i materiali con un tono non elitario, anzi con quell’intento 'divulgativo' che nelle mostre più commerciali si affida a richiami sempre un po’ sopra le righe, gridati. Qui, ciò che grida, e grida di bellezza indicibile, è il cromatismo di molte opere, l’eleganza sublime della decorazione a cui il tempo ha conferito un fascino impressionistico, facendo di ogni opera un frammento di qualcosa che, come giustamente sottolinea nel catalogo (Skira) il curatore Eugenio La Rocca, ci è giunto in dosi avare e spesso incomplete.
Va da sé che presentando le ragioni di questa mostra, vengano messe in campo questioni che non costituiscono più una novità negli sviluppi delle ricerche archeologiche e storiche sulla pittura romana. Il primo luogo comune sfatato ormai da tempo è quello che poggiava su un errore di comprensione di Winckelmann, ovvero che la scultura classica, quella greca e poi quella romana, fosse un’arte del bianco puro, tema fondamentale della poetica neoclassicista. In realtà, l’arte classica era policroma, non era un’arte soltanto cerebrale, ma anche sensuale. L’altro stereotipo, anche questo inflazionato da tempo, dell’imitazione e dell’assimilazione dei modelli greci nella pittura romana, e l’importanza di questa nel lasciarci indirettamente traccia di qualcosa che è scomparso quasi del tutto dalla faccia della terra. Anche questo luogo comune è stato ampiamente smontato e rimontato, e oggi si può dire che l’assimilazione dei modelli greci nella pittura romana avviene con un’autonomia 'semantica' che corrisponde, per certi versi, alla mutazione del significato che l’arte cristiana apporterà ai modelli e ai temi classici rielaborandoli dentro un’iconografia variata.
Il salto concettuale è quello che passa tra una cultura dove l’arte si specchia nell’idea di cosmos e una cultura che ha come punto di riferimento l’impero; ovvero, la differenza fra trascendente e immanente. Questo è un dato di fatto che gli stessi curatori anticipano già nel titolo della mostra: Roma. La pittura di un impero. L’impero è una istituzione che racchiude una vasta e molteplice giurisdizione sotto l’autorità di una sola figura, l’imperatore, che rappresenta al tempo stesso l’individuale e l’universale, l’umano e il divino.
Ma quanto si guarda la pittura romana non si può fare a meno di pensare quanto fosse elevata e quale ruolo avesse la committenza in questo processo 'politico'. Perché è evidente che oltre il decus si coglie in quest’arte anche un’'estetica politica', categoria che appartiene piuttosto al linguaggio critico segnato dai totalitarismi, e nell’arte romana ha ovviamente un significato completamente diverso da quello che diamo oggi a questa espressione. È da tener presente che molte opere che vediamo in mostra sono affreschi staccati da muri di case patrizie, e la loro bellezza testimonia un’altissima considerazione della casa, dell’abitare, ovvero l’idea di uno status, un grado di civiltà, che precede, sostanzialmente, i significati impliciti e simbolici dell’immagine. Straordinari gli affreschi sulle pareti del colombario di Villa Doria Pamphili, fatti di niente, qualche uccello e natura morta, evanescenti paesaggi, poche figure mitologiche per un luogo funebre dove, in fondo, ci si trova proiettati in un orizzonte biancastro che sembra voler negare alla notte il suo dominio. Certi paesaggi sono quasi sogni, apparizioni, e posseggono una modernità e una vicinanza col nostro sentire che talvolta non si avverte nella più grande pittura rinascimentale e barocca, troppo carica di retropensieri. Così come gli affreschi della Villa della Farnesina, quelli dell’ambulacro e del triclinio che reggono ancora il contrappunto del bianco e del nero, sono dipinti con colori capaci di esprimere dal proprio interno toni lattei, riflessi che competono con quelli dei marmi più preziosi e raffinati; osserviamo ornamenti filiformi e di misurata eleganza, quel poco che basta a ricordarci che la bellezza non è mai faticosa, è minimale, e vive sul registro di elementari ma costanti rapporti di forma e di toni, di segni e di spazi. E questo diventa chiaro passando dalle grandi decorazioni della Farnesina al piccolo affresco delle Menadi danzanti su fondo nero, si avverte insomma che, nonostante il cambio di stile, esiste una compattezza nella visione estetica romana, che dice tuttavia quanto fosse chiara ai romani la 'funzionalità' della pittura nel collaborare a rendere l’immagine pubblica di Roma anche quando la sfera d’azione del dipinto è strettamente privata. Essere impero significa questo, in fondo: un principio universale che tiene insieme le diverse parti, armonizzandole dentro un’immagine di grandezza e di eternità fondata sulla durata nel tempo e sul riconoscersi parte di un orizzonte di destino (la pittura ne diventa, in un certo senso, il sipario). Quando si parla di imitazione e assimilazione di modelli greci, appare tuttavia chiaro che lungo i secoli dell’impero le imagines maiorum testimoniano (per quanto riguarda la scultura) l’evoluzione dal ritratto 'greco', cioè astratto e universale, al ritratto via via più realistico e fisiognomico, ma in definitiva concepito secondo tipologie espressive che lo rendono ancora assoluto pur appartenendo a un individuo preciso; infine, si approda ai ritratti del Fayyum, la regione dell’Egitto bonificata dai tolomei dalla quale sono riemersi durante gli scavi decine di ritratti funebri il cui elemento comune è la vitalità dello sguardo, come se l’oraziano «non omnis moriar» fosse già diventato, sotto l’influenza del cristianesimo, una promessa di resurrezione. Ed è in quel momento che la grande pittura romana comincia a perdere la sua valenza decorativa e va verso l’'individuazione', la ricerca dell’elemento particolare che sottrae le realtà singole, quelle umane in primis, all’orizzonte di finitudine pagana che aveva trovato nel culto degli avi la sua massima estensione trascendente.
Va da sé che presentando le ragioni di questa mostra, vengano messe in campo questioni che non costituiscono più una novità negli sviluppi delle ricerche archeologiche e storiche sulla pittura romana. Il primo luogo comune sfatato ormai da tempo è quello che poggiava su un errore di comprensione di Winckelmann, ovvero che la scultura classica, quella greca e poi quella romana, fosse un’arte del bianco puro, tema fondamentale della poetica neoclassicista. In realtà, l’arte classica era policroma, non era un’arte soltanto cerebrale, ma anche sensuale. L’altro stereotipo, anche questo inflazionato da tempo, dell’imitazione e dell’assimilazione dei modelli greci nella pittura romana, e l’importanza di questa nel lasciarci indirettamente traccia di qualcosa che è scomparso quasi del tutto dalla faccia della terra. Anche questo luogo comune è stato ampiamente smontato e rimontato, e oggi si può dire che l’assimilazione dei modelli greci nella pittura romana avviene con un’autonomia 'semantica' che corrisponde, per certi versi, alla mutazione del significato che l’arte cristiana apporterà ai modelli e ai temi classici rielaborandoli dentro un’iconografia variata.
Il salto concettuale è quello che passa tra una cultura dove l’arte si specchia nell’idea di cosmos e una cultura che ha come punto di riferimento l’impero; ovvero, la differenza fra trascendente e immanente. Questo è un dato di fatto che gli stessi curatori anticipano già nel titolo della mostra: Roma. La pittura di un impero. L’impero è una istituzione che racchiude una vasta e molteplice giurisdizione sotto l’autorità di una sola figura, l’imperatore, che rappresenta al tempo stesso l’individuale e l’universale, l’umano e il divino.
Ma quanto si guarda la pittura romana non si può fare a meno di pensare quanto fosse elevata e quale ruolo avesse la committenza in questo processo 'politico'. Perché è evidente che oltre il decus si coglie in quest’arte anche un’'estetica politica', categoria che appartiene piuttosto al linguaggio critico segnato dai totalitarismi, e nell’arte romana ha ovviamente un significato completamente diverso da quello che diamo oggi a questa espressione. È da tener presente che molte opere che vediamo in mostra sono affreschi staccati da muri di case patrizie, e la loro bellezza testimonia un’altissima considerazione della casa, dell’abitare, ovvero l’idea di uno status, un grado di civiltà, che precede, sostanzialmente, i significati impliciti e simbolici dell’immagine. Straordinari gli affreschi sulle pareti del colombario di Villa Doria Pamphili, fatti di niente, qualche uccello e natura morta, evanescenti paesaggi, poche figure mitologiche per un luogo funebre dove, in fondo, ci si trova proiettati in un orizzonte biancastro che sembra voler negare alla notte il suo dominio. Certi paesaggi sono quasi sogni, apparizioni, e posseggono una modernità e una vicinanza col nostro sentire che talvolta non si avverte nella più grande pittura rinascimentale e barocca, troppo carica di retropensieri. Così come gli affreschi della Villa della Farnesina, quelli dell’ambulacro e del triclinio che reggono ancora il contrappunto del bianco e del nero, sono dipinti con colori capaci di esprimere dal proprio interno toni lattei, riflessi che competono con quelli dei marmi più preziosi e raffinati; osserviamo ornamenti filiformi e di misurata eleganza, quel poco che basta a ricordarci che la bellezza non è mai faticosa, è minimale, e vive sul registro di elementari ma costanti rapporti di forma e di toni, di segni e di spazi. E questo diventa chiaro passando dalle grandi decorazioni della Farnesina al piccolo affresco delle Menadi danzanti su fondo nero, si avverte insomma che, nonostante il cambio di stile, esiste una compattezza nella visione estetica romana, che dice tuttavia quanto fosse chiara ai romani la 'funzionalità' della pittura nel collaborare a rendere l’immagine pubblica di Roma anche quando la sfera d’azione del dipinto è strettamente privata. Essere impero significa questo, in fondo: un principio universale che tiene insieme le diverse parti, armonizzandole dentro un’immagine di grandezza e di eternità fondata sulla durata nel tempo e sul riconoscersi parte di un orizzonte di destino (la pittura ne diventa, in un certo senso, il sipario). Quando si parla di imitazione e assimilazione di modelli greci, appare tuttavia chiaro che lungo i secoli dell’impero le imagines maiorum testimoniano (per quanto riguarda la scultura) l’evoluzione dal ritratto 'greco', cioè astratto e universale, al ritratto via via più realistico e fisiognomico, ma in definitiva concepito secondo tipologie espressive che lo rendono ancora assoluto pur appartenendo a un individuo preciso; infine, si approda ai ritratti del Fayyum, la regione dell’Egitto bonificata dai tolomei dalla quale sono riemersi durante gli scavi decine di ritratti funebri il cui elemento comune è la vitalità dello sguardo, come se l’oraziano «non omnis moriar» fosse già diventato, sotto l’influenza del cristianesimo, una promessa di resurrezione. Ed è in quel momento che la grande pittura romana comincia a perdere la sua valenza decorativa e va verso l’'individuazione', la ricerca dell’elemento particolare che sottrae le realtà singole, quelle umane in primis, all’orizzonte di finitudine pagana che aveva trovato nel culto degli avi la sua massima estensione trascendente.
Roma. Scuderie del Quirinale: «ROMA: LA PITTURA DI UN IMPERO» (fino al 17 gennaio 2010)
«Avvenire» del 29 settembre 2009
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