A un secolo e mezzo di distanza si prendono ancora per veri molti stereotipi che hanno alimentato il contrasto Nord-Sud
di Giordano Bruno Guerri
Si fa un gran dibattere sulle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, su cosa sia giusto fare e cosa no. Sia i numerosi intellettuali che fanno parte del Comitato, sia quelli ancora più numerosi che ne sono esclusi manifestano scontentezza: opere pubbliche sì, opere pubbliche no? E, se sì, quali? Mi sembra che sarebbe il caso di cominciare dal principio, tanto noto quanto poco adottato «non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te, ma cosa puoi fare per il tuo Paese».
Per esempio, il modo migliore (più economico e più utile) per celebrare l’Unità è che i suddetti intellettuali pubblichino un volume collettivo - basta organizzare un convengo entro l’estate del 2010 - per mettere nella giusta luce storiografica il nostro Risorgimento. Il quale viene tuttora trattato in modo retorico, enfatico e antistorico nei libri di testo delle scuole. Non sarebbe poi difficile semplificare gli atti di un simile convegno per farne un testo scolastico finalmente libero da patriottismi d’occasione.
Un simile testo farebbe giustizia di molti luoghi comuni che ci hanno trasmesso tanto nelle medie inferiori e superiori quanto nelle università. Non è edulcorando la propria storia che la si onora e la si fa amare, né tantomeno conoscere. Bisognerà, per esempio, dimostrare in modo esplicito che il Risorgimento non fu un movimento di massa voluto dal popolo, bensì l’attività intellettuale e politica di una minoranza, oltre che una campagna di conquista del Regno del Piemonte; che Cavour non andò mai a Roma in vita sua e che avrebbe preferito uno Stato federale composto da Nord, Centro e Sud; che ai cosiddetti plebisciti di annessione poté votare, per censo, meno del 2 per cento della popolazione; che Massimo d’Azeglio, dopo aver detto pubblicamente «fatta l’Italia bisogna fare gli italiani», in privato scriveva: «Unirsi con i napoletani è come giacere con un lebbroso»; che non erano molti - al Nord, al Sud, al Centro - gli italiani che davvero si entusiasmavano all’idea dell’Unità.
C’è anche da affrontare, fra i molti nodi, quale fosse il reale stato dell’economia del Regno delle Due Sicilie: se è vero - come sempre più spesso si sostiene - che fosse molto migliore di quanto comunemente si creda. E quanto è vero che le banche meridionali vennero saccheggiate in favore del nuovo Stato unitario, che il latifondo baronale sia stato smantellato - con requisizioni - a favore di nuovi latifondisti, i quali poterono comprare vasti appezzamenti di terra a costo inferiore al valore effettivo. C’è da considerare se l’improvvisa e radicale uniformazione di sistemi contabili, unità di misura, programmi scolastici ecc. non avrebbe potuto venire realizzata, più ragionevolmente, in tempi più lunghi.
Il corpo centrale del volume, invece, affonderà il più gigantesco e intangibile tabù della storia d’Italia, cui nei manuali scolastici vengono dedicate poche righe, ovvero la «lotta al brigantaggio». Per combattere la ribellione delle popolazioni meridionali contro l’annessione forzata, il neo Regno d’Italia applicò una vera dittatura militare, impiegando l’esercito come contro un nemico esterno. Intere popolazioni meridionali vennero sottoposte a una spietata repressione militare, di cui si è persa traccia perché la documentazione relativa è stata scientemente distrutta, ma che provocò - secondo calcoli attendibili - almeno 100mila morti, con crudeltà feroci da entrambe le parti: soldati crocefissi alle porte delle chiese, popolane incinte stuprate e squartate...
Sono straordinarie le storie di singoli briganti e brigantesse, di battaglie e agguati, astuzie e vita quotidiana di un mondo che sembra antico e siamo invece noi, appena un secolo e mezzo fa.
Il «brigantaggio» - sostenuto dai Borboni in esilio, dal clero, da veri briganti e dalla popolazione civile - fu una rivolta di massa, sociale e politica. Era la prima, dura prova dello Stato unitario, sulla quale si giocava la sua credibilità internazionale; e lo Stato, nel periodo 1861-1864, impiegò quasi metà dell’esercito per vincere la ribellione. Il 15 agosto 1863 fu approvata la legge Pica, che estendeva la repressione alla popolazione civile, ovvero a chiunque fornisse ai «briganti» viveri, informazioni «ed aiuti in ogni maniera». Con questo strumento operarono i nomi più illustri dell’esercito, Alfonso La Marmora, Enrico Cialdini, Enrico Morozzo della Rocca, Giacomo Medici, Raffaele Cadorna.
Intere regioni furono sottoposte a un regime di occupazione, ebbero villaggi incendiati, coltivazioni distrutte e lutti - decine di migliaia, non si sa quanti - dovuti ai «piemontesi». La popolazione considerava i briganti eroi coraggiosi contro un invasore. Ancora ottanta anni dopo Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli, scrisse: «Non c’è famiglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel tempo risalgono gli odi che dividono il paese tramandati per le generazioni, e sempre attuali».
Non è possibile capire il successivo rapporto Nord-Sud, fino ai nostri giorni, se non si tiene conto di quegli eventi. L’Italia settentrionale assistette inorridita alla guerra, per quanto si cercasse di nasconderne la gravità, e cominciò a chiedersi se annettere «quei selvaggi» era stato un bene. Il banditismo venne stroncato senza che peraltro venisse risolto il problema della criminalità, né tanto meno quello della sopravvivenza quotidiana dei più poveri.
Alla fine del 1865, la lotta al «brigantaggio» era ormai vinta, anche se durerà almeno fino all’annessione dello Stato della Chiesa, che appoggiava in ogni modo i «briganti». Il governo centrale si era imposto, l’Unità era salva grazie all’esercito, ma a caro prezzo.
È una vicenda che né al liberalismo e né al fascismo conveniva illuminare, e una sorta di autocensura patriottica ha impedito di farlo negli ultimi sessant’anni, continuando a perpetuare l’enfasi da Cuore sulla quale sono cresciuti decine di milioni di italiani. La «lotta al brigantaggio» non fu lo scontro di pochi criminali, o ribelli: erano italiani che non avevano avuto diritto di voto nei plebisciti per l’annessione al Regno del Piemonte, ma avevano il diritto, umanamente se non legalmente, di rifiutarla. Ancora più drammatici furono i riflessi sulla popolazione meridionale: «Mi avete voluto a tutti i costi? Bene, adesso mantenetemi». Anche l’attuale reazione leghista, in fondo, senza rendersene conto, deriva da quell’antico episodio della nostra storia.
Sul mercato non esiste, e non è mai esistita, una storia del brigantaggio fatta da uno storico autorevole e pubblicata da una grande casa editrice. Esistono soltanto centinaia di - preziose - storie locali pubblicate da piccoli editori. Beninteso, un simile volume non dovrà essere aprioristicamente denigratorio. Arriverà, inevitabilmente, alla conclusione che l’Unità è stata indispensabile, quindi preziosa, per il formarsi di un popolo italiano, e anche per lo sviluppo e l’economia dell’intero Paese. Ma nessun popolo - come nessun individuo - può davvero prendersi in giro, fingendo di avere avuto una storia diversa da quella che ha avuto.
(1. continua)
Per esempio, il modo migliore (più economico e più utile) per celebrare l’Unità è che i suddetti intellettuali pubblichino un volume collettivo - basta organizzare un convengo entro l’estate del 2010 - per mettere nella giusta luce storiografica il nostro Risorgimento. Il quale viene tuttora trattato in modo retorico, enfatico e antistorico nei libri di testo delle scuole. Non sarebbe poi difficile semplificare gli atti di un simile convegno per farne un testo scolastico finalmente libero da patriottismi d’occasione.
Un simile testo farebbe giustizia di molti luoghi comuni che ci hanno trasmesso tanto nelle medie inferiori e superiori quanto nelle università. Non è edulcorando la propria storia che la si onora e la si fa amare, né tantomeno conoscere. Bisognerà, per esempio, dimostrare in modo esplicito che il Risorgimento non fu un movimento di massa voluto dal popolo, bensì l’attività intellettuale e politica di una minoranza, oltre che una campagna di conquista del Regno del Piemonte; che Cavour non andò mai a Roma in vita sua e che avrebbe preferito uno Stato federale composto da Nord, Centro e Sud; che ai cosiddetti plebisciti di annessione poté votare, per censo, meno del 2 per cento della popolazione; che Massimo d’Azeglio, dopo aver detto pubblicamente «fatta l’Italia bisogna fare gli italiani», in privato scriveva: «Unirsi con i napoletani è come giacere con un lebbroso»; che non erano molti - al Nord, al Sud, al Centro - gli italiani che davvero si entusiasmavano all’idea dell’Unità.
C’è anche da affrontare, fra i molti nodi, quale fosse il reale stato dell’economia del Regno delle Due Sicilie: se è vero - come sempre più spesso si sostiene - che fosse molto migliore di quanto comunemente si creda. E quanto è vero che le banche meridionali vennero saccheggiate in favore del nuovo Stato unitario, che il latifondo baronale sia stato smantellato - con requisizioni - a favore di nuovi latifondisti, i quali poterono comprare vasti appezzamenti di terra a costo inferiore al valore effettivo. C’è da considerare se l’improvvisa e radicale uniformazione di sistemi contabili, unità di misura, programmi scolastici ecc. non avrebbe potuto venire realizzata, più ragionevolmente, in tempi più lunghi.
Il corpo centrale del volume, invece, affonderà il più gigantesco e intangibile tabù della storia d’Italia, cui nei manuali scolastici vengono dedicate poche righe, ovvero la «lotta al brigantaggio». Per combattere la ribellione delle popolazioni meridionali contro l’annessione forzata, il neo Regno d’Italia applicò una vera dittatura militare, impiegando l’esercito come contro un nemico esterno. Intere popolazioni meridionali vennero sottoposte a una spietata repressione militare, di cui si è persa traccia perché la documentazione relativa è stata scientemente distrutta, ma che provocò - secondo calcoli attendibili - almeno 100mila morti, con crudeltà feroci da entrambe le parti: soldati crocefissi alle porte delle chiese, popolane incinte stuprate e squartate...
Sono straordinarie le storie di singoli briganti e brigantesse, di battaglie e agguati, astuzie e vita quotidiana di un mondo che sembra antico e siamo invece noi, appena un secolo e mezzo fa.
Il «brigantaggio» - sostenuto dai Borboni in esilio, dal clero, da veri briganti e dalla popolazione civile - fu una rivolta di massa, sociale e politica. Era la prima, dura prova dello Stato unitario, sulla quale si giocava la sua credibilità internazionale; e lo Stato, nel periodo 1861-1864, impiegò quasi metà dell’esercito per vincere la ribellione. Il 15 agosto 1863 fu approvata la legge Pica, che estendeva la repressione alla popolazione civile, ovvero a chiunque fornisse ai «briganti» viveri, informazioni «ed aiuti in ogni maniera». Con questo strumento operarono i nomi più illustri dell’esercito, Alfonso La Marmora, Enrico Cialdini, Enrico Morozzo della Rocca, Giacomo Medici, Raffaele Cadorna.
Intere regioni furono sottoposte a un regime di occupazione, ebbero villaggi incendiati, coltivazioni distrutte e lutti - decine di migliaia, non si sa quanti - dovuti ai «piemontesi». La popolazione considerava i briganti eroi coraggiosi contro un invasore. Ancora ottanta anni dopo Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli, scrisse: «Non c’è famiglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel tempo risalgono gli odi che dividono il paese tramandati per le generazioni, e sempre attuali».
Non è possibile capire il successivo rapporto Nord-Sud, fino ai nostri giorni, se non si tiene conto di quegli eventi. L’Italia settentrionale assistette inorridita alla guerra, per quanto si cercasse di nasconderne la gravità, e cominciò a chiedersi se annettere «quei selvaggi» era stato un bene. Il banditismo venne stroncato senza che peraltro venisse risolto il problema della criminalità, né tanto meno quello della sopravvivenza quotidiana dei più poveri.
Alla fine del 1865, la lotta al «brigantaggio» era ormai vinta, anche se durerà almeno fino all’annessione dello Stato della Chiesa, che appoggiava in ogni modo i «briganti». Il governo centrale si era imposto, l’Unità era salva grazie all’esercito, ma a caro prezzo.
È una vicenda che né al liberalismo e né al fascismo conveniva illuminare, e una sorta di autocensura patriottica ha impedito di farlo negli ultimi sessant’anni, continuando a perpetuare l’enfasi da Cuore sulla quale sono cresciuti decine di milioni di italiani. La «lotta al brigantaggio» non fu lo scontro di pochi criminali, o ribelli: erano italiani che non avevano avuto diritto di voto nei plebisciti per l’annessione al Regno del Piemonte, ma avevano il diritto, umanamente se non legalmente, di rifiutarla. Ancora più drammatici furono i riflessi sulla popolazione meridionale: «Mi avete voluto a tutti i costi? Bene, adesso mantenetemi». Anche l’attuale reazione leghista, in fondo, senza rendersene conto, deriva da quell’antico episodio della nostra storia.
Sul mercato non esiste, e non è mai esistita, una storia del brigantaggio fatta da uno storico autorevole e pubblicata da una grande casa editrice. Esistono soltanto centinaia di - preziose - storie locali pubblicate da piccoli editori. Beninteso, un simile volume non dovrà essere aprioristicamente denigratorio. Arriverà, inevitabilmente, alla conclusione che l’Unità è stata indispensabile, quindi preziosa, per il formarsi di un popolo italiano, e anche per lo sviluppo e l’economia dell’intero Paese. Ma nessun popolo - come nessun individuo - può davvero prendersi in giro, fingendo di avere avuto una storia diversa da quella che ha avuto.
(1. continua)
«Il Giornale» del 5 settembre 2009
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