Langone contro quelli che vogliono dire “ateo” e scrivono “laico”
di Camillo Langone
Ha il più bel seno del giornalismo italiano ma non conosce il significato della parola laico. Secondo lei è sinonimo di ateo. Scrive di qua, scrive di là, scrive sui maschili e sui femminili, sulle riviste e sui giornali, a volte perfino in prima pagina, senza sapere che laico è innanzitutto, trascrivo il De Mauro, “chi non appartiene al clero”. D’accordo, Tullio De Mauro è stato ministro in un governo Amato quindi viene spontaneo diffidare di lui e allora attingo direttamente dal testo base dell’istituzione entro la quale la parola è nata, il Catechismo della chiesa cattolica: “Col nome di laici si intendono tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro”. Io sono laico: io porto la croce al collo, ho l’anello del rosario, vado a messa tutte le domeniche, spesso leggo l’Epistola dall’ambone, firmo l’otto per mille, non mangio carne il venerdì, il Mercoledì delle ceneri e il Venerdì santo digiuno a pane e acqua, ma non essendo un sacerdote sono laico. Non conto nulla, non faccio testo? Certo, meglio fare un altro esempio. San Francesco era laico: predicatore trascinante, stigmatizzato, fondatore dei frati minori, inventore del presepe, alter Christus, patrono d’Italia, ma non essendo sacerdote (non ha mai detto messa) era laico.
La donna col più bel seno del giornalismo italiano lo ignora perché è laureata in Italia, masterizzata negli Usa e patentata dall’ordine dei giornalisti, inventato da Benito Mussolini per uniformare la stampa. La corporazione dei pennivendoli è un grande successo del fascismo, insieme alla bonifica pontina una delle poche realizzazioni sopravvissute al regime, al secolo e pure al millennio. Gli uomini dei media anche quando ostentano difformità sul piano delle idee sono perfettamente allineati sul piano della lingua, ben più decisivo, essendo le cose conseguenza delle parole. Quando bisogna dire ateo, come un sol uomo dicono “laico”. E pensare che, volendo variare, non mancherebbero i sinonimi: empio, miscredente, irreligioso, incredulo… Perfino i giornalisti cattolici tendono per quieto vivere a usare il termine nell’accezione comoda e scorretta, a volte circondandolo di virgolette sperando di salvarsi l’anima. Che invece è persa. “Chi accetta il lessico del nemico si arrende senza saperlo. Prima di diventare espliciti nelle proposizioni, i giudizi sono impliciti nei vocaboli” spiega Nicolás Gómez Dávila. I cuculi della chiesa cattolica, i parassiti del vocabolario cristiano, vanno buttati giù dal nido. Stefano Rodotà e Umberto Veronesi non devono più nutrirsi di parole religiose e poi rigurgitarle addosso agli amici di Gesù con senso rovesciato.
Se arrossiscono a definirsi atei peggio per loro anzi no, meglio per loro: soltanto la verità salva. L’a privativa rende palese la condizione disgraziata del senza Dio che invece a sentirsi definire laico gode come un gatto quando gli gratti in mezzo alle orecchie. Pensa di essere un eroe del libero pensiero mentre sta indulgendo alla vanità dello scetticismo di massa. Gli manca qualcosa ed è convinto di essere di più. Qualche settimana fa, durante una delle mie periodiche crisi di purezza, ho sentito l’urgente bisogno di chiudere ogni rapporto con chiunque profani questa parola cristiana, semplice e neutra, degradandola a parolaccia ideologica, faziosa e tendenziosa. Fatti i conti mi sono risolto a più miti consigli, essendomi accorto che avrei perso la maggioranza degli interlocutori: non solo chi ha il più bel seno del giornalismo italiano ma anche chi ce l’ha un po’ meno bello, e perfino chi non ce l’ha affatto, né bello né brutto, scrocca “laico” a duemila anni di cristianesimo per farne abuso nelle redazioni.
Pertanto ho ripiegato sulla cacciata dalle rubriche di tutte le persone che non soltanto usano l’accezione falsa ma che nemmeno conoscono l’accezione vera. La donna col seno più bello del giornalismo italiano è una di queste. L’ho messa alla prova, le ho detto di essere laico ed è diventata paonazza: “Ma come, lo sanno tutti che sei cattolico!”. Ciuccia e presuntuosa, come si dice nel vecchio regno di Napoli (antichissima espressione mai stata così attuale). Lei è un esemplare emblematico di donna moderna, perfettamente impermeabile alla conoscenza. E atea, ovvio. Forse con quel seno può dire ciò che vuole ma il problema è che non si limita a dirlo, lo scrive pure. E’ un’infaticabile spacciatrice d’ignoranza e menzogna, una specialista dell’articolo finito ancor prima di aver cominciato a pensare. Non riconoscendo alcuna verità oltre ai propri organi ghiandolari, alla prima smagliatura comincerà a dubitare di se stessa. Ma non del proprio lessico: come può pentirsi chi nemmeno sospetta la sua colpa? Continuerà a scrivere laico a vanvera fino alla fine dei suoi capezzoli.
«Il Foglio» del 28 settembre 2009
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