L’«Economist» ha rilanciato uno studio belga che dimostra come la presenza di 'coscienza minima' nei pazienti sia sistematicamente sottostimata Eppure da anni esiste una scala di valutazione che permetterebbe di evitare gli errori
di Gian Luigi Gigli
« Sfortunatamente per alcuni » : così, il 23 luglio, The Economist titolava un interessante articolo sullo stato vegetativo. Non si riferiva, tuttavia, alla gravità della disabilità che connota – ovviamente – questa condizione clinica, ma al fatto ancor più terribile che molti di questi pazienti siano stati lasciati morire sulla base di un errore diagnostico. L’articolo dell’Economist riprendeva con grande risalto i risultati di uno studio belga pubblicato sulla rivista scientifica BMC Neurology solo due giorni prima. Si trattava per la verità di risultati già noti agli addetti ai lavori e comunicati dagli autori poche settimane prima a Milano, nel corso del Congresso della European Neurological Society.
Proprio Avvenire ne aveva dato conto in un’intervista a Steven Laureys, uno degli autori del gruppo di Liegi. La grande stampa italiana non ne ha fatto ( ancora) menzione.
Distinguere tra i diversi stati di compromissione della coscienza è sempre stato difficile. Nel 1996 Keith Andrews riportò che, nei pazienti ricoverati al Royal Hospital for Neurodisability di Londra, il 40 % delle diagnosi di stato vegetativo erano errate.
Il dato allarmante fu confermato da altri studi. Andava in quegli anni precisandosi la categoria dello stato di minima coscienza, codificata internazionalmente solo nel 2002 dal gruppo di Aspen. Si tratta di pazienti che, emersi dallo stato vegetativo, mostrano segni di coscienza, sebbene fluttuanti e incostanti.
Negli anni successivi Joseph Giacino, l’animatore dell’Aspen Group, mise a punto una scala di valutazione standardizzata in grado di distinguere i pazienti in stato vegetativo da quelli in stato di minima coscienza e di identificare quelli che erano ormai emersi anche dallo stato di minima coscienza in cui prima si trovavano. Purtroppo, la Coma Recovery Scale- Revised ( CRS- R), a distanza di cinque anni dalla sua pubblicazione, non è ancora utilizzata routinariamente.
Gli studiosi di Liegi, dunque, hanno dimostrato che il mancato uso di questi accurati metodi di valutazioni causa il persistere di una forte percentuale di errori diagnostici anche in centri specializzati.
L’indagine, che ha coinvolto 103 pazienti, è stata infatti condotta nei centri che fanno parte della rete belga per l’assistenza ai pazienti in stato vegetativo e di minima coscienza, utilizzando rigorosi criteri di inclusione ed esclusione e fondandosi su osservazioni comportamentali quotidiane condotte da un team multidisciplinare di esperti.
Il confronto tra la diagnosi clinica, formulata in modo consensuale, e la valutazione mediante la CRS- R ha mostrato che il 40% dei pazienti ritenuti in stato vegetativo erano in realtà in stato di minima coscienza e che il 10% dei pazienti ritenuti in stato di minima coscienza erano in realtà emersi da quella condizione ed erano ormai capaci di comunicare, anche se i loro medici non se ne erano accorti.
tali dati allarmanti ci permettiamo solo di Aaggiungere che, probabilmente, il tasso di errore diagnostico sarebbe stato ancora più elevato se si fossero usate anche le indagini di risonanza magnetica funzionale, di PET e di neurofisiologia che hanno mostrano la possibilità del persistere di una comunicazione residua anche in pazienti in cui essa non è clinicamente evidenziabile.
È certamente più facile fare una diagnosi basandosi sul proprio convincimento clinico piuttosto che sulle misurazioni standardizzate richieste da una scala di valutazione. Le convinzioni possono tuttavia essere
Sfuorvianti, specie se influenzate dall’ideologia o dalle influenze esterne. Le compagnie assicurative, per esempio, possono preferire una diagnosi di stato vegetativo, perché non richiede il perpetuarsi delle spese per la riabilitazione. Ma anche in Paesi come il nostro l’intensità e la durata dell’intervento riabilitativo può dipendere dalla diagnosi.
Soprattutto, la ' piccola' differenza tra una diagnosi di stato vegetativo e una di stato di minima coscienza può significare lo spartiacque per l’autorizzazione a lasciar morire una persona di fame e di sete, non solo all’estero. Quando si emette una sentenza di morte sarebbe bene non avere paura del dubbio. Purtroppo di tutto quanto si è mosso nel mondo scientifico negli ultimi 15 anni non vi è traccia nel decreto della Corte d’Appello di Milano con cui si è autorizzata la sospensione di idratazione e nutrizione in Eluana. Il dubbio purtroppo non alberga neanche nella stampa laica, almeno in Italia, e i giudici, si sa, non sono tenuti a leggere The Economist.
«Avvenire» del 10 settembre 2009
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