Su quei banchi ci siamo tutti
di Ernesto Galli Della Loggia
Da anni l’istruzione è il cuore malato dell’Italia inferma. È lo specchio del nostro declino. Siamo agli ultimi posti nella classifica dei rendimenti scolastici, il che vuol dire che i giovani italiani sanno far di conto, scrivere e capire un testo peggio di quasi tutti i loro colleghi non italiani, mentre i due grandi punti di forza della nostra tradizione scolastica, la scuola elementare e il liceo, sono ormai solo la pallida ombra di ciò che furono. Sul versante finale, le nostre migliori università, gestite troppo a lungo dal potere arbitrario di chi vi insegna, e soffocate da problemi di ogni tipo, fanno una ben misera figura rispetto alle migliori straniere.
È vero: da decenni la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è troppo bassa; ma attenzione: specie per quel che riguarda l’istruzione primaria e secondaria essa non è poi così catastroficamente bassa rispetto alla media europea. Guardando le cose nei loro termini più generali, il problema centrale del nostro sistema d’istruzione appare soprattutto un altro. È il fatto che l’ambito della scuola e dell’università è quello dove da circa mezzo secolo si manifestano con particolare virulenza tre aspetti critici della nostra vita collettiva: il potere sindacale, il timore sempre in agguato per l’ordine pubblico (comune a tutti i partiti e a tutti i governi), e infine la diffusione, nella scuola e fuori, di un senso comune culturalmente ostile alla dimensione del merito, del dovere, della disciplina, della selezione. I lettori sanno di cosa parlo. La scuola è rimasta un settore dove i sindacati e le loro logiche corporative hanno in buona parte ancora oggi un virtuale diritto di veto su qualunque decisione non solo di tipo organizzativo (circa le carriere e le assunzioni del personale), ma anche sui programmi e in generale sulla didattica. Egualmente, basta la più piccola minoranza studentesca che organizzi un corteo o un sit-in perché il mondo politico sia attraversato da un brivido di speranza o di paura credendo di scorgere all’orizzonte una riedizione del mitico Sessantotto. E nel complesso, poi, guai a chiunque dica che nell’istruzione il permissivismo va messo al bando, che ogni apprendimento esige anche sacrificio, che non tutti alla fine possono risultare capaci e meritevoli.
In queste condizioni fare il ministro dell’Istruzione e dell’Università in Italia equivale a essere una specie di san Sebastiano: bersagliato da ogni parte, schernito, vilipeso e mostrificato alla prima occasione, destinato quasi sempre a scontentare tutti. Da Gui alla Moratti, passando per De Mauro e Berlinguer, è stato in pratica un vero e proprio martirologio politico, e anche l’anno scolastico che si apre in questi giorni minaccia come al solito tempesta sul capo del san Sebastiano di turno, il ministro Gelmini. Dal momento che scoccare frecce verso chi si trova legato al palo dell’istruzione è facile, molto facile: e infatti nel corso degli ultimi decenni nessuna forza politica si è sottratta alla tentazione di farlo ricavandone il misero utile del caso.
È vero: da decenni la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è troppo bassa; ma attenzione: specie per quel che riguarda l’istruzione primaria e secondaria essa non è poi così catastroficamente bassa rispetto alla media europea. Guardando le cose nei loro termini più generali, il problema centrale del nostro sistema d’istruzione appare soprattutto un altro. È il fatto che l’ambito della scuola e dell’università è quello dove da circa mezzo secolo si manifestano con particolare virulenza tre aspetti critici della nostra vita collettiva: il potere sindacale, il timore sempre in agguato per l’ordine pubblico (comune a tutti i partiti e a tutti i governi), e infine la diffusione, nella scuola e fuori, di un senso comune culturalmente ostile alla dimensione del merito, del dovere, della disciplina, della selezione. I lettori sanno di cosa parlo. La scuola è rimasta un settore dove i sindacati e le loro logiche corporative hanno in buona parte ancora oggi un virtuale diritto di veto su qualunque decisione non solo di tipo organizzativo (circa le carriere e le assunzioni del personale), ma anche sui programmi e in generale sulla didattica. Egualmente, basta la più piccola minoranza studentesca che organizzi un corteo o un sit-in perché il mondo politico sia attraversato da un brivido di speranza o di paura credendo di scorgere all’orizzonte una riedizione del mitico Sessantotto. E nel complesso, poi, guai a chiunque dica che nell’istruzione il permissivismo va messo al bando, che ogni apprendimento esige anche sacrificio, che non tutti alla fine possono risultare capaci e meritevoli.
In queste condizioni fare il ministro dell’Istruzione e dell’Università in Italia equivale a essere una specie di san Sebastiano: bersagliato da ogni parte, schernito, vilipeso e mostrificato alla prima occasione, destinato quasi sempre a scontentare tutti. Da Gui alla Moratti, passando per De Mauro e Berlinguer, è stato in pratica un vero e proprio martirologio politico, e anche l’anno scolastico che si apre in questi giorni minaccia come al solito tempesta sul capo del san Sebastiano di turno, il ministro Gelmini. Dal momento che scoccare frecce verso chi si trova legato al palo dell’istruzione è facile, molto facile: e infatti nel corso degli ultimi decenni nessuna forza politica si è sottratta alla tentazione di farlo ricavandone il misero utile del caso.
«Corriere della sera» del 13 settembre 2009
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