Una raccolta di saggi, curata da David El Kenz, rilegge la storia dell' umanità
di Giuseppe Galasso
Dagli assiri al colonialismo: civiltà e imperi fondati sulle stragi Funzioni simboliche Per le società mesopotamiche lo sterminio era un' affermazione di sovranità, per i greci uno strumento eccezionale di dominio
Il massacro non è il tema storico più ameno. A studiarlo come un puro oggetto storico, fuori di ogni ideologismo, mira il volume Il massacro nella storia, a cura di David El Kenz (Utet Libreria), e non per «una enciclopedia fattuale dei massacri», o analisi di tutti i fatti storici qualificabili come massacri, impresa irrealizzabile, bensì per chiarire come ogni storico, col proprio metodo, costruisca e racconti i massacri, anche in rapporto con «le memorie sociali delle stragi». Vi prevalgono episodi dell' età moderna e contemporanea. Ma El Kenz spiega che «in effetti, il massacro assunse, a partire dal XVI secolo, un ruolo importante nel pensiero occidentale», e gli storici avvertono «degli scrupoli e delle esitazioni a parlare di massacro», così come «i contemporanei non sembrano averne avuto una piena e chiara consapevolezza». Sulla renitenza degli storici moderni in fatto di stragi avrei più di una riserva. Qui emerge come per gli assiri il massacro «non fosse un tabù, ma che anzi fosse riprodotto sui monumenti come un simbolo della sovranità», sicché gli occidentali vi hanno visto «una prova della barbarie delle civiltà orientali». Per i greci, invece, sembra che «l' assassinio di massa resti un procedimento eccezionale utilizzato per consolidare un dominio politico». Per i romani il massacro degli alessandrini da parte di Caracalla serve come motivo di «discredito di uno stile politico». Il massacro dei francesi nel Vespro siciliano (30 marzo 1282) sarebbe all' origine di «un luogo di memoria fondatore di quella comunità». I massacri delle «guerre d' Italia» dal 1494 mettono in causa la «cesura accademica del Rinascimento», e diventano «il simbolo di una rottura irrimediabile tra un' età dell' oro», prima del 1494, e il dopo. Come per gli assiri, per il sultano turco «l' esecuzione a catena dei prigionieri di guerra» è «una cerimonia di Stato», ed egli vi «può esercitare la sua autorità indiscussa». Nelle «guerre di religione» europee tra Cinquecento e Seicento la spinta ad ampliare il potere dei sovrani porta a formare «una soglia di tolleranza di fronte alle violenze estreme». I massacri francesi nell' Algeria conquistata sono occultati per esaltare «l' espansione coloniale» e gli «imperativi militari». Ma qui si va da un estremo all' altro. Nella guerra dei Trent' anni (1618-48) gli storici tedeschi sottolineano «la "catastrofe nazionale" di un Paese diviso e impotente», mentre per i pellerossa c' è chi «ricusa una storia genocidaria» perché si è di fronte a «una precisa volontà di distruzione delle popolazioni solo localmente, senza preparazione d' insieme su scala statale». Così, il massacro turco degli armeni forma una paradossale «nozione centrale» per gli stessi storici che lo negano, e alimenta una tale «carica polemica» da spingere «a una sorta di "competizione" tra le vittime». Il massacro degli emigrati coreani in Giappone nel 1923 spinge «la storiografia neo-orientalista» a riprodurre «una visione della crudeltà asiatica tipica degli occidentali». Gli Einsatzgruppen tedeschi in Russia nel 1941, dediti alla «caccia» di vittime nel Paese occupato, evocano un'animalità disumana, ma ancor più l'idea che «la disumanizzazione appartiene ancora all' umanità». A loro volta, «i siti internet abbondano di immagini, ma deformano la realtà cronologica del massacro». Come si vede, l'esemplificazione è larga e interessante. Ma essa e i saggi più generali o di metodo del volume valgono a costruire una prospettiva storica che, senza ideologismi, oltrepassi la constatazione della presenza originaria, costante e frequente del massacro, e la varietà dei modi di raccontarlo e giustificarlo o di celarlo e trasfigurarlo, nelle storie degli uomini? Una società, si dice, dovrebbe ridefinirsi riesaminando il suo rapporto con le forme estreme di violenza. Decostruire, cioè, il massacro, decostruendo la sovranità e il sistema delle sovranità; e acquisire così «la risorsa di un pensiero possibile al di là del massacro». Nel nostro piccolo, anche questa ci pare ideologia. Decostruiamo e ricostruiamo tutto, ma senza illuderci o pretendere di andare oltre la storia, che è quella che è, e tale si annuncia «finché il sole - risplenderà sulle sciagure umane». Sì, oltre la storia e il tappeto di teschi che essa distende, non c' è che la storia stessa, ossia tutto l'altro che la storia fa, e che suona nascita e vita e fioritura e nobiltà della vita. Il pensiero che va oltre di essa è anch' esso nella storia, ne fa parte ed è una sua voce. Ed è per ciò che nella storia c' è stato il massacro, ma anche il suo rifiuto e la condanna nelle stesse religioni ed etiche civili che per altro verso lo hanno voluto e giustificato, e nella storia dei massacri non lo si può ignorare. In fatto di massacri l' uomo ha, insomma, sempre saputo quel che doveva sapere. Nel farne storia è già tanto stabilire «elementi di confronto tra i differenti racconti di massacro, pur rivelando delle logiche tipiche di ciascun contesto», come appunto è merito della parte più persuasiva e riuscita di questa originale ricerca.
Il volume «Il massacro nella storia» (Utet Libreria, pagine 512, Euro 33) è una raccolta di saggi su alcuni momenti tragici della vicenda umana. Curatore del volume è David El Kenz, docente di Storia moderna all' Università della Borgogna ed esperto delle guerre di religione
«Corriere della Sera» del 27 settembre 2009
Nessun commento:
Posta un commento