Ortodossi ma anche ribelli, due protagonisti del mondo che fu vicino al Pci mettono in discussione il loro impegno
di PierluigiBattista
Il «ceto colto» di sinistra, autocritica a metà
Un po' se ne dispera. Ma un po' se ne compiace. Gli intellettuali si estinguono per un «cataclisma culturale» paragonabile al «mutamento ciclopico di clima» che i paleontologi indicano come causa della fine dei brontosauri. Ma l'artefice della suggestiva comparazione, Alberto Asor Rosa, affronta con spirito ambivalente la «cerimonia degli addii» dell'intellettuale moderno messa a punto con Simonetta Fiori nel Grande silenzio pubblicato da Laterza. L' intellettuale spodestato, il maestro del pensiero oramai ripudiato, ripercorre autobiograficamente le tappe di una storia finita. Sottolineandone i tratti velleitari, eppure rivendicandone i frammenti di grandezza. Un requiem intonato con l' ironia da un intellettuale che contraddittoriamente riassume in sé gli opposti plasticamente raffigurati dall'intervistatrice Fiori: eterodosso nell'ortodossia, «paladino della classe operaia e difensore della letteratura altoborghese. Rovesciatore d'altari ma anche militante disciplinato. Animatore del Sessantotto e accademico rispettato». La sincerità di un approccio autobiografico si misura sulla mancanza di indulgenza con cui si affrontano gli errori del passato. Asor Rosa supera l'esame. Ma non a pieni voti. È spietato con gli errori collettivi del «ceto dei colti» con cui si è identificato, ma lo è molto di meno con se stesso o, se si vuole, con la rielaborazione soggettiva con cui Asor Rosa ha interpretato una storia costellata di errori. Lui è sempre stato un metro avanti al mondo cui ha appartenuto con prestigio e autorevolezza. Ma mai che quella distanza fosse stata affrontata fino al punto di rischiare una rottura o una lacerazione. Con Scrittori e popolo ha compiuto in giovane età una delle riletture più demolitorie della tradizione culturale ufficiale della sinistra italiana. Ma in questo libro si erge a difensore della storia patria minacciata da non si sa bene quale iconoclastica spinta «neo revisionista». È stato il meno comunista degli intellettuali del Pci, ma al momento giusto, quando Occhetto - di cui peraltro era ascoltatissimo consigliere culturale - decise di cambiare le insegne del partito, lui si oppose con ira e veemenza. Scrive adesso che Occhetto condusse la svolta come un «bambino viziato», che «scassò tutto», che scelse di «smontare radicalmente il suo partito». Ma non spende una parola sul fragore apocalittico con cui il Muro di Berlino stava venendo giù. Dice che «il passato mi ha riserbato una montagna di delusioni» e che è mancata «all' intellighenzia di sinistra una seria discussione sulla storia comunista italiana, nel bene e nel male». Ma sembra incline più a ricavarne il «bene», minimizzando il «male» o addirittura dirottandolo interamente su Craxi, descritto in queste pagine con toni di autentica indignazione retroattiva. Anche se, sul comunismo (almeno sulla storia comunista), Craxi aveva ragione, e il Pci torto. La storia degli intellettuali di sinistra che affiora da questo libro è ricca, piena di risultati preziosi, di figure che è giusto rimpiangere, di libri che per fortuna sono stati scritti, di battaglie che è stato bene condurre: i nuovi dinosauri hanno anche molte voci in attivo nel bilancio della loro esistenza. Asor Rosa giustamente in questo libro vanta una lettura straordinariamente profonda di Dante e di Marx. Oggi, purtroppo, finiti gli intellettuali si legge male, poco, disordinatamente, superficialmente. E se è vero che la fondazione di una rivista, l'impegno culturale in un' aula universitaria, la partecipazione talvolta nevrotica al dibattito pubblico, persino le liturgie e i riti e il lessico che hanno dato anima e forme al «ceto dei colti» oggi può muovere a un benevolo sorriso intriso di nostalgia per una storia destinata a partorire «montagne di delusioni», è anche vero che lo scenario odierno non autorizza neanche un minimo di ottimismo. Asor Rosa di questa storia (finita) è stato testimone e protagonista. Naturale che la sua scomparsa venga interpretata come una grande perdita per tutti. Non come un lutto irreparabile ma come il passaggio di un' epoca che smentisce l'assunto progressista che la storia sia orientata verso il meglio. Un passaggio che alimenta il rispetto per il «mondo di ieri». Anche se innesca in chi lo ha vissuto intensamente un «grande silenzio».
«Corriere della sera» del 19 settembre 2009
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