Che il progresso della civiltà coincidesse col superamento della tradizione sembrava un dato assodato. Ora non è più così
di Pierangelo Sequeri
L’opposizione della tradizione al progresso, in termini moderati o radicali, continua a essere indicata, retoricamente, come cifra caratteristica della modernità occidentale. Fino a ieri, il solo fatto di giudicare questa opposizione uno schema intellettualmente rozzo e ideologicamente pregiudicato era sufficiente per essere iscritti d’ufficio nel campo culturale (e politico) del tradizionalismo. 'Tradizionalismo' qualificava una polarizzazione dell’attaccamento alla tradizione, che la cultura dominante assimilava a un orientamento autoritario, ostile alla libertà e resistente al progresso (almeno sul piano etico-politico). In ogni caso, l’idea che il progresso della civiltà, del sapere, della libertà, coincidessero con il superamento della tradizione si è largamente affermato, a partire dalla modernità, come un a priori di senso comune.
Oggi non è più così. Non è necessariamente una buona notizia, se si tiene conto del fatto che l’evoluzione di quello schema di contrapposizione, indubbiamente semplicistico, presenta almeno due variabili, a loro volta non prive di problemi. Di certo, però, il ridimensionamento di quell’opposizione e la revisione del pregiudizio che la guidava astratto, rispetto alla ragione e alla storia dell’umano - ha fatto molti passi avanti. In primo luogo, potremmo mettere a fuoco il ricupero della irriducibile pluralità delle culture. (...) Ne è scaturito peraltro un effetto curioso, un po’ paradossale. L’assolutezza della nozione di 'progresso', legata alla scala occidentale dei valori, è stata sottoposta a critica. La sua pretesa di porsi al vertice dei criteri di civiltà, e delle forme di attuazione dell’ideale umanistico, è apparsa ideologica e dogmatica: ossia, nel gergo attuale, infondata. Ma al tempo stesso, la pregiudiziale gerarchica a favore della cultura occidentale si è ripresentata come tratto caratteristico di quella critica. La relativizzazione della propria cultura, occidentale (e cristiana), si è prodotta in vista del riconoscimento della uguale dignità e rispettabilità delle altre tradizioni culturali (e religiose), nella loro specifica diversità. Ma questa prospettiva è pur sempre l’effetto di un’evoluzione interna alla cultura occidentale (e cristiana). È questa cultura, infatti, che considera come un principio generale di progresso della civiltà umana un tale riconoscimento, le cui radici pescano nel terreno della razionalità illuministica e dell’universalismo cristiano (anche se il peso esatto di queste due derivazioni è tutt’ora in discussione). Lo sviluppo di questo modello, indiscutibilmente etico, che riconosce pari dignità alle diverse tradizioni del senso, si è applicato, per così dire, a se stesso.
Una pluralità significativa di culture è stata infatti percepita anche nell’orizzonte sincronico del medesimo mondo storico. Il fatto è oggi macroscopicamente evidente, anche perché il conferimento di valore al pluralismo culturale ne ha incrementato il riconoscimento, moltiplicando l’applicazione del concetto totalizzante di 'cultura' (e in modo equivalente di 'tradizione') alle diversità politiche, regionali, di ceto, di opinione. In ogni caso - secondo questa interpretazione - analoga differenziazione può essere colta anche nelle epoche più antiche della nostra storia.
Ne è scaturito un secondo paradosso, ugualmente imprevisto. La critica radicale della tradizione, che la intende come eredità dogmatica di un sapere dispotico e a senso unico, ha investito la tradizione stessa della ragione illuministica. La sua pretesa infallibilità di orientamento del senso ha infatti mostrato con abbondanza di prove la sua tragica ingenuità (Horkheimer e Adorno).
L’elaborazione di questa critica ha finito per produrre una riabilitazione delle tradizioni di senso, di contro all’univocità di un logos separato dalla trasmissione e dall’iniziazione all’umano, che si pensa razionale e progressivo proprio in virtù di questa astrattezza. La ragione contemporanea si è così rivolta a sviluppare la sua funzione di riconoscimento e di apprezzamento (sia pure critico) delle tradizioni che ne articolano storicamente il senso possibile.
Il ruolo insostituibile della tradizione, intesa come disponibilità di orientamento del senso, non può essere sostituita dall’autofondazione della ragione.
Anzi, in quanto trasmissione di una verità e di una giustizia dell’umano che motiva eticamente l’elaborazione della ragione, la tradizione di senso ha un ruolo fondamentale nell’offerta delle condizioni che rendono umanamente affidabile l’uso della ragione. La questione della tradizione di senso - come si forma e con quale autenticità, quale forma di autorevolezza impiega e quale maturazione della libertà rende disponibile, in che modo concorre alla formazione di un’identità umana, e quali risorse offre per la circolazione e la condivisione di identità interumana - diventa, in questo modo, oggettivamente fondamentale. E lo diventa proprio come tema importante della ragione universale e critica. La ragione illuministica, avendo dimenticato questa articolazione fondamentale fra offerta e appropriazione razionale dell’umanità del senso, ha finito per opporvi una tradizione del pensiero unico che occultava la sua natura di tradizione. La sua astrattezza esponeva la ragione alla separazione dalla soggettività concreta. E la sua accentuazione della soggettività razionale, come un a priori dell’accertamento della verità e della giustizia fondato su se stesso, espone la sua realizzazione concreta alla sua separazione dalla concretezza dell’umano condiviso: con la tendenza a considerarlo un ostacolo da superare (o da abbattere). Nei casi peggiori come totalitarismo violento. Nei casi meno appariscenti, come burocrazia coatta di un logos anaffettivo e anestetico.
Oggi non è più così. Non è necessariamente una buona notizia, se si tiene conto del fatto che l’evoluzione di quello schema di contrapposizione, indubbiamente semplicistico, presenta almeno due variabili, a loro volta non prive di problemi. Di certo, però, il ridimensionamento di quell’opposizione e la revisione del pregiudizio che la guidava astratto, rispetto alla ragione e alla storia dell’umano - ha fatto molti passi avanti. In primo luogo, potremmo mettere a fuoco il ricupero della irriducibile pluralità delle culture. (...) Ne è scaturito peraltro un effetto curioso, un po’ paradossale. L’assolutezza della nozione di 'progresso', legata alla scala occidentale dei valori, è stata sottoposta a critica. La sua pretesa di porsi al vertice dei criteri di civiltà, e delle forme di attuazione dell’ideale umanistico, è apparsa ideologica e dogmatica: ossia, nel gergo attuale, infondata. Ma al tempo stesso, la pregiudiziale gerarchica a favore della cultura occidentale si è ripresentata come tratto caratteristico di quella critica. La relativizzazione della propria cultura, occidentale (e cristiana), si è prodotta in vista del riconoscimento della uguale dignità e rispettabilità delle altre tradizioni culturali (e religiose), nella loro specifica diversità. Ma questa prospettiva è pur sempre l’effetto di un’evoluzione interna alla cultura occidentale (e cristiana). È questa cultura, infatti, che considera come un principio generale di progresso della civiltà umana un tale riconoscimento, le cui radici pescano nel terreno della razionalità illuministica e dell’universalismo cristiano (anche se il peso esatto di queste due derivazioni è tutt’ora in discussione). Lo sviluppo di questo modello, indiscutibilmente etico, che riconosce pari dignità alle diverse tradizioni del senso, si è applicato, per così dire, a se stesso.
Una pluralità significativa di culture è stata infatti percepita anche nell’orizzonte sincronico del medesimo mondo storico. Il fatto è oggi macroscopicamente evidente, anche perché il conferimento di valore al pluralismo culturale ne ha incrementato il riconoscimento, moltiplicando l’applicazione del concetto totalizzante di 'cultura' (e in modo equivalente di 'tradizione') alle diversità politiche, regionali, di ceto, di opinione. In ogni caso - secondo questa interpretazione - analoga differenziazione può essere colta anche nelle epoche più antiche della nostra storia.
Ne è scaturito un secondo paradosso, ugualmente imprevisto. La critica radicale della tradizione, che la intende come eredità dogmatica di un sapere dispotico e a senso unico, ha investito la tradizione stessa della ragione illuministica. La sua pretesa infallibilità di orientamento del senso ha infatti mostrato con abbondanza di prove la sua tragica ingenuità (Horkheimer e Adorno).
L’elaborazione di questa critica ha finito per produrre una riabilitazione delle tradizioni di senso, di contro all’univocità di un logos separato dalla trasmissione e dall’iniziazione all’umano, che si pensa razionale e progressivo proprio in virtù di questa astrattezza. La ragione contemporanea si è così rivolta a sviluppare la sua funzione di riconoscimento e di apprezzamento (sia pure critico) delle tradizioni che ne articolano storicamente il senso possibile.
Il ruolo insostituibile della tradizione, intesa come disponibilità di orientamento del senso, non può essere sostituita dall’autofondazione della ragione.
Anzi, in quanto trasmissione di una verità e di una giustizia dell’umano che motiva eticamente l’elaborazione della ragione, la tradizione di senso ha un ruolo fondamentale nell’offerta delle condizioni che rendono umanamente affidabile l’uso della ragione. La questione della tradizione di senso - come si forma e con quale autenticità, quale forma di autorevolezza impiega e quale maturazione della libertà rende disponibile, in che modo concorre alla formazione di un’identità umana, e quali risorse offre per la circolazione e la condivisione di identità interumana - diventa, in questo modo, oggettivamente fondamentale. E lo diventa proprio come tema importante della ragione universale e critica. La ragione illuministica, avendo dimenticato questa articolazione fondamentale fra offerta e appropriazione razionale dell’umanità del senso, ha finito per opporvi una tradizione del pensiero unico che occultava la sua natura di tradizione. La sua astrattezza esponeva la ragione alla separazione dalla soggettività concreta. E la sua accentuazione della soggettività razionale, come un a priori dell’accertamento della verità e della giustizia fondato su se stesso, espone la sua realizzazione concreta alla sua separazione dalla concretezza dell’umano condiviso: con la tendenza a considerarlo un ostacolo da superare (o da abbattere). Nei casi peggiori come totalitarismo violento. Nei casi meno appariscenti, come burocrazia coatta di un logos anaffettivo e anestetico.
«Avvenire» del 5 settembre 2009
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