La sfida della degitalizzazione dei libri
di Alessandro Zaccuri
All’inizio, per chi amava i libri, Internet era un sogno che si avverava. Volevi consultare la Biblioteca del Congresso a Washington? Prima del World Wide Web dovevi mettere in conto, come minimo, un volo transoceanico. Adesso bastavano due clic e il catalogo era a tua disposizione Quando si è iniziato a parlare di biblioteche digitali, poi, poco mancava che ci commuovessimo. Indicavi un volume al motore di ricerca (Google, chi altri?) e qualche secondo dopo avevi già scaricato il pdf. Fantastico, quando si tratta di opere fuori commercio, risalenti per esempio all’epoca d’oro dell’erudizione ottocentesca. Magari un po’ farraginosa, non si discute. Ma vuoi mettere il fascino? Oggi come oggi nessun editore si metterebbe in testa di ristampare o peggio tradurre gli studi del benemerito J. Payne Collier sulle fonti di Shakespeare. Ben venga Google Books, quindi. Ben venga il sogno realizzato di tutti i libri a portata di mouse.
I bibliofili sono gente strana, amano il contatto fisico con la pagina, tollerano la polvere come un piccolo male necessario, però prima o poi, se qualcosa non funziona, aprono gli occhi anche loro, e non necessariamente per controllare i dati riportati su un frontespizio.
Ecco perché la battaglia che in questi giorni si sta combattendo a Bruxelles li riguarda da vicino.
Molto da vicino. Si tratta di questo: l’impresa avviata da Google Books (oltre 60 milioni di opere già digitalizzate, e scusate se è poco) si basa su un accordo con le autorità americane, in conseguenza del quale gran parte dei libri risultano 'liberi da diritti' a meno che non siano catalogati in un apposito registro.
Una procedura che, di fatto, mette nell’angolo gli editori europei (e italiani in particolare), che si troverebbero nella condizione di reclamare soltanto a digitalizzazione già avvenuta. La questione, in apparenza, è strettamente giuridica, confinata in quella particolare branca del diritto che è, per l’appunto, il diritto d’autore. Le conseguenze, tuttavia, sono di portata più vasta e riguardano, in definitiva, il valore che ciascuno di noi è disposto a riconoscere al libro. Che è un oggetto, d’accordo, ma è anche e soprattutto un mondo in miniatura, un universo tascabile, un concentrato di idee ed emozioni.
Potrà sembrare sbrigativo, ma l’impressione è che – ancora una volta – il discrimine sia di tipo generazionale. Fra chi c’era 'prima', e ha conosciuto la fatica di cercare tra scaffali e bancarelle una certa edizione o una determinata opera fuori catalogo, e chi è arrivato 'dopo', quando tutto sembra immediatamente disponibile e liofilizzato online. Non a caso, uno dei più grandi critici letterari d’Europa, Jean Starobinski, ha dichiarato che Internet può diventare, nello stesso tempo, la Biblioteca di Alessandria e la Cloaca Maxima. Dipende da quello che cerchi. E quello che cerchi, il più delle volte, è esattamente quello che trovi.
Bene ha fatto l’Aie (l’associazione che riunisce gli editori italiani) a commissionare e produrre le ricerche che sono all’origine del ricorso in sede europea. Ma lo scontro che si profila è, per paradosso, tanto moderno quanto antiquato. Già nel XIX secolo, infatti, la disinvoltura delle case editrici americane aveva causato più di un grattacapo all’industria culturale del Vecchio Continente. Oggi la storia si ripete, accelerata dal moltiplicatore di Internet. E i bibliofili, nel frattempo, iniziano a domandarsi se non valga la pena di collezionare anche i pdf.
I bibliofili sono gente strana, amano il contatto fisico con la pagina, tollerano la polvere come un piccolo male necessario, però prima o poi, se qualcosa non funziona, aprono gli occhi anche loro, e non necessariamente per controllare i dati riportati su un frontespizio.
Ecco perché la battaglia che in questi giorni si sta combattendo a Bruxelles li riguarda da vicino.
Molto da vicino. Si tratta di questo: l’impresa avviata da Google Books (oltre 60 milioni di opere già digitalizzate, e scusate se è poco) si basa su un accordo con le autorità americane, in conseguenza del quale gran parte dei libri risultano 'liberi da diritti' a meno che non siano catalogati in un apposito registro.
Una procedura che, di fatto, mette nell’angolo gli editori europei (e italiani in particolare), che si troverebbero nella condizione di reclamare soltanto a digitalizzazione già avvenuta. La questione, in apparenza, è strettamente giuridica, confinata in quella particolare branca del diritto che è, per l’appunto, il diritto d’autore. Le conseguenze, tuttavia, sono di portata più vasta e riguardano, in definitiva, il valore che ciascuno di noi è disposto a riconoscere al libro. Che è un oggetto, d’accordo, ma è anche e soprattutto un mondo in miniatura, un universo tascabile, un concentrato di idee ed emozioni.
Potrà sembrare sbrigativo, ma l’impressione è che – ancora una volta – il discrimine sia di tipo generazionale. Fra chi c’era 'prima', e ha conosciuto la fatica di cercare tra scaffali e bancarelle una certa edizione o una determinata opera fuori catalogo, e chi è arrivato 'dopo', quando tutto sembra immediatamente disponibile e liofilizzato online. Non a caso, uno dei più grandi critici letterari d’Europa, Jean Starobinski, ha dichiarato che Internet può diventare, nello stesso tempo, la Biblioteca di Alessandria e la Cloaca Maxima. Dipende da quello che cerchi. E quello che cerchi, il più delle volte, è esattamente quello che trovi.
Bene ha fatto l’Aie (l’associazione che riunisce gli editori italiani) a commissionare e produrre le ricerche che sono all’origine del ricorso in sede europea. Ma lo scontro che si profila è, per paradosso, tanto moderno quanto antiquato. Già nel XIX secolo, infatti, la disinvoltura delle case editrici americane aveva causato più di un grattacapo all’industria culturale del Vecchio Continente. Oggi la storia si ripete, accelerata dal moltiplicatore di Internet. E i bibliofili, nel frattempo, iniziano a domandarsi se non valga la pena di collezionare anche i pdf.
«Avvenire» del 9 settembre 2009
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