L’identità del Paese affonda le radici in una comune tradizione linguistica e artistica nata dalla sintesi di culture locali. Negarlo, come fanno certi storici, è un’operazione ideologica
di Ugo Finetti
La successione degli attacchi al governo a proposito delle celebrazioni della nascita dello Stato italiano sta avvitando la sinistra e i suoi storici militanti su posizioni sempre più arretrate.
In particolare non si comprende quale «pericolo» possa venire dalla valorizzazione delle realtà e storie locali, una delle accuse mosse più di frequente. Del resto la soluzione federalista fu presente nella cultura risorgimentale ed è stata ricorrente in particolare nella sinistra italiana. Uno dei temi della polemica antifascista fu contestare al regime la compattezza della nazione italiana, ottenuta censurando articolazioni e diversità. Basterebbe guardare infatti a come è stata impostata la rappresentazione della Resistenza da sinistra a cominciare dal testo che la celebra nel modo più ortodosso e cioè il Dizionario della Resistenza, edito nel 2000 da Einaudi. Perché quel che vale per la Resistenza che aveva alle spalle uno Stato unitario consolidato non può valere per i moti risorgimentali di un secolo prima e per il 1861?
Il testo einaudiano è articolato in due tomi così intitolati: «Storia e geografia della Liberazione», «Luoghi, formazioni, protagonisti». La rievocazione della Resistenza è svolta in capitoli dedicati in modo minuzioso alle varie vicende nelle singole regioni, proprio secondo il tanto bistrattato principio della «valorizzazione della storia localistica»: dalla loro specifica «situazione sociopolitica» al «potenziale economico» e all’«impulso autonomista». «L’accentuazione geografica accanto a quella storica - è spiegato nell’Introduzione - ci sembra rappresenti uno spiccato elemento di novità non solo perché rompe l’idea cristallizzata e diffusa di una Resistenza dal carattere unitario, ma perché dà spazio a una notevole mole di lavori regionali e locali che in questi ultimi anni hanno contribuito a restituire complessità e veridicità». E quindi si motiva la valorizzazione della «geografia» come base per poter meglio valutare «il rapporto tra un’esperienza così sconvolgente come fu la lotta di liberazione con il suo attuale assetto istituzionale».
Ma allora perché le manifestazioni di «Italia 150» non possono dar luogo a una riflessione sugli assetti istituzionali? Comunque sia, negare il policentrismo della cultura italiana significa negare almeno otto secoli di storia. E cercare nel solo processo risorgimentale le radici dell’Unità è un errore per difetto che trascura una lunga tradizione letteraria, dibattiti a volte furiosi sulla lingua nazionale (quando la nazione ancora non esisteva; segno che però esisteva una coscienza unitaria), una politica di equilibrio e scambio reciproco da cui nacque, ad esempio, il Rinascimento. La storia d’Italia, insomma, non inizia nel 1861. «Giardino dell’Impero» ed «espressione geografica» sono modi di dire che hanno sfregiato per secoli gli italiani privi di uno stato unitario. Ma l’Italia - gli italiani - esistevano ed erano riconosciuti per una lingua che era la dimensione unitaria, disegnava una comunità che si articolava e si consolidava da Milano a Palermo nella letteratura, nell’arte, nella ricerca scientifica e, quindi, nello stesso pensiero politico. Basti pensare all’Italia invocata dal Machiavelli e che animava il pensiero rinascimentale. «Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia» è l’incipit della Storia d’Italia che Francesco Guicciardini scrisse tra il 1537 e il 1540.
Anche l’altra contestazione più frequente - la citazione di Vincenzo Gioberti insieme con Carlo Cattaneo e più in generale il coinvolgimento dei «guelfi» - investe il rapporto tra unità d’Italia e identità nazionale. Che cosa si deve fare nel 2011? Celebrare la rottura con la Chiesa e la divisione tra laici e cattolici? Per comprendere il fastidio di vedere il Gioberti accanto al Cattaneo bisogna tener presente come nella sinistra italiana si sia andata sviluppando e consolidando una corrente che soprattutto sull’onda del Sessantotto, in un periodo in cui vacillavano molti riferimenti tradizionali (a cominciare dalla Chiesa investita dalla crisi postconciliare), ha proposto una lettura critica della identità italiana mettendo sotto accusa radici latine e radici cattoliche. L’eredità della cultura latina sarebbe stato il manzoniano «latinorum» ovvero l’Italia di una cultura giuridica nel segno degli «Azzeccagarbugli», mentre il lascito più importante del cattolicesimo andrebbe visto nell’Inquisizione. Tutti i mali d’Italia deriverebbero da un Paese che aveva conosciuto la Controriforma senza aver avuto alcuna Riforma.
È auspicabile che «Italia 150» consenta anche una riflessione critica su come si studia e si insegna la storia d’Italia. Vittorio Emanuele II che entra a Milano con a fianco Napoleone III e alle spalle l’esercito francese, Giuseppe Garibaldi che avanza nel Regno borbonico grazie alla protezione delle navi inglesi (e alla corruzione dei comandanti avversari), il Veneto che diventa italiano come regalo dei francesi in quanto gli austriaci, avendoci sconfitto per terra e per mare (Custoza e Lissa), rifiutano una cessione diretta agli italiani: sono pagine di storia che non possono essere cancellate o ritoccate. Dopo 150 anni si è abbastanza «adulti» per conoscere come si è nati.
Il nervosismo crescente sembra in verità tradire una seria preoccupazione per il fatto che per decenni certa storiografia ha avuto come cultura dominante la lettura classista, la storia d’Italia come teatro di scontro fra capitalismo reazionario e movimento dei lavoratori. Questa architettura storiografica è ancora presente nei più diffusi manuali e «testi consigliati» redatti da storici che per decenni si sono formati e hanno lavorato essendo convinti - una citazione per ricordare il clima - che «la storiografia marxista» è quella che «ha saputo meglio spaziare dalla storia antica a quella contemporanea... allargando la tematica al di là dei confini nazionali» (Rosario Villari). Nel 1959 la socialdemocrazia tedesca «mandava in soffitta» Marx con il Congresso di Bad Godesberg. È forse il tempo di celebrare in Italia una Bad Godesberg storiografica. Che queste celebrazioni siano l’occasione giusta?
In particolare non si comprende quale «pericolo» possa venire dalla valorizzazione delle realtà e storie locali, una delle accuse mosse più di frequente. Del resto la soluzione federalista fu presente nella cultura risorgimentale ed è stata ricorrente in particolare nella sinistra italiana. Uno dei temi della polemica antifascista fu contestare al regime la compattezza della nazione italiana, ottenuta censurando articolazioni e diversità. Basterebbe guardare infatti a come è stata impostata la rappresentazione della Resistenza da sinistra a cominciare dal testo che la celebra nel modo più ortodosso e cioè il Dizionario della Resistenza, edito nel 2000 da Einaudi. Perché quel che vale per la Resistenza che aveva alle spalle uno Stato unitario consolidato non può valere per i moti risorgimentali di un secolo prima e per il 1861?
Il testo einaudiano è articolato in due tomi così intitolati: «Storia e geografia della Liberazione», «Luoghi, formazioni, protagonisti». La rievocazione della Resistenza è svolta in capitoli dedicati in modo minuzioso alle varie vicende nelle singole regioni, proprio secondo il tanto bistrattato principio della «valorizzazione della storia localistica»: dalla loro specifica «situazione sociopolitica» al «potenziale economico» e all’«impulso autonomista». «L’accentuazione geografica accanto a quella storica - è spiegato nell’Introduzione - ci sembra rappresenti uno spiccato elemento di novità non solo perché rompe l’idea cristallizzata e diffusa di una Resistenza dal carattere unitario, ma perché dà spazio a una notevole mole di lavori regionali e locali che in questi ultimi anni hanno contribuito a restituire complessità e veridicità». E quindi si motiva la valorizzazione della «geografia» come base per poter meglio valutare «il rapporto tra un’esperienza così sconvolgente come fu la lotta di liberazione con il suo attuale assetto istituzionale».
Ma allora perché le manifestazioni di «Italia 150» non possono dar luogo a una riflessione sugli assetti istituzionali? Comunque sia, negare il policentrismo della cultura italiana significa negare almeno otto secoli di storia. E cercare nel solo processo risorgimentale le radici dell’Unità è un errore per difetto che trascura una lunga tradizione letteraria, dibattiti a volte furiosi sulla lingua nazionale (quando la nazione ancora non esisteva; segno che però esisteva una coscienza unitaria), una politica di equilibrio e scambio reciproco da cui nacque, ad esempio, il Rinascimento. La storia d’Italia, insomma, non inizia nel 1861. «Giardino dell’Impero» ed «espressione geografica» sono modi di dire che hanno sfregiato per secoli gli italiani privi di uno stato unitario. Ma l’Italia - gli italiani - esistevano ed erano riconosciuti per una lingua che era la dimensione unitaria, disegnava una comunità che si articolava e si consolidava da Milano a Palermo nella letteratura, nell’arte, nella ricerca scientifica e, quindi, nello stesso pensiero politico. Basti pensare all’Italia invocata dal Machiavelli e che animava il pensiero rinascimentale. «Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia» è l’incipit della Storia d’Italia che Francesco Guicciardini scrisse tra il 1537 e il 1540.
Anche l’altra contestazione più frequente - la citazione di Vincenzo Gioberti insieme con Carlo Cattaneo e più in generale il coinvolgimento dei «guelfi» - investe il rapporto tra unità d’Italia e identità nazionale. Che cosa si deve fare nel 2011? Celebrare la rottura con la Chiesa e la divisione tra laici e cattolici? Per comprendere il fastidio di vedere il Gioberti accanto al Cattaneo bisogna tener presente come nella sinistra italiana si sia andata sviluppando e consolidando una corrente che soprattutto sull’onda del Sessantotto, in un periodo in cui vacillavano molti riferimenti tradizionali (a cominciare dalla Chiesa investita dalla crisi postconciliare), ha proposto una lettura critica della identità italiana mettendo sotto accusa radici latine e radici cattoliche. L’eredità della cultura latina sarebbe stato il manzoniano «latinorum» ovvero l’Italia di una cultura giuridica nel segno degli «Azzeccagarbugli», mentre il lascito più importante del cattolicesimo andrebbe visto nell’Inquisizione. Tutti i mali d’Italia deriverebbero da un Paese che aveva conosciuto la Controriforma senza aver avuto alcuna Riforma.
È auspicabile che «Italia 150» consenta anche una riflessione critica su come si studia e si insegna la storia d’Italia. Vittorio Emanuele II che entra a Milano con a fianco Napoleone III e alle spalle l’esercito francese, Giuseppe Garibaldi che avanza nel Regno borbonico grazie alla protezione delle navi inglesi (e alla corruzione dei comandanti avversari), il Veneto che diventa italiano come regalo dei francesi in quanto gli austriaci, avendoci sconfitto per terra e per mare (Custoza e Lissa), rifiutano una cessione diretta agli italiani: sono pagine di storia che non possono essere cancellate o ritoccate. Dopo 150 anni si è abbastanza «adulti» per conoscere come si è nati.
Il nervosismo crescente sembra in verità tradire una seria preoccupazione per il fatto che per decenni certa storiografia ha avuto come cultura dominante la lettura classista, la storia d’Italia come teatro di scontro fra capitalismo reazionario e movimento dei lavoratori. Questa architettura storiografica è ancora presente nei più diffusi manuali e «testi consigliati» redatti da storici che per decenni si sono formati e hanno lavorato essendo convinti - una citazione per ricordare il clima - che «la storiografia marxista» è quella che «ha saputo meglio spaziare dalla storia antica a quella contemporanea... allargando la tematica al di là dei confini nazionali» (Rosario Villari). Nel 1959 la socialdemocrazia tedesca «mandava in soffitta» Marx con il Congresso di Bad Godesberg. È forse il tempo di celebrare in Italia una Bad Godesberg storiografica. Che queste celebrazioni siano l’occasione giusta?
«Il Giornale» del 18 settembre 2009
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