Il semiologo Ugo Volli: «Troppa stampa italiana non serve il proprio pubblico, ma anzi lo usa per incidere sul gioco politico»
di Edoardo Castagna
«Invece di vendere informazione ai propri lettori, i giornali italiani vendono i propri lettori alle forze politiche che li sostengono». Lo sguardo del semiologo Ugo Volli sul panorama dell’informazione nel nostro Paese è desolato: «In che stato versa? Versa in stato comatoso, veramente pessimo. Tra i tanti problemi che presenta, il principale è quello del ruolo che la stampa si attribuisce: non fornire notizie a cittadini adulti in grado di decidere, ma essere un attore politico che, come tale, usa i contenuti da un lato per fare propaganda, e dall’altro per far pesare la propria forza all’interno del sistema politico. Come se non bastasse, il meccanismo viene coltivato attraverso la mobilitazione della base sociale costituita dai lettori, dai collaboratori e da tutte le persone vicine ai vari organi di stampa, attraverso l’invito a sottoscrivere pubblici appelli».
Quello «per la libertà di stampa» lanciato da «La Repubblica» dopo essere stata querelata da Berlusconi non è forse comprensibile?
«Sono rimasto colpito assai negativamente dalla chiamata rivolta da Repubblica a tutti gli amici della testata, indicando con grande rilievo nomi e cognomi, affinché protestino contro la citazione in giudizio.
Come se libertà di stampa e l’intervento dei tribunali – il cui ruolo è proprio la tutela della libertà, oltre che la definizione dei suoi confini laddove inizia la libertà altrui – fossero in contrasto. Come se la libertà potesse andare al di là della verità e del diritto delle persone a difendere la propria sfera privata, al di là di qualunque possibile valutazione da parte della legge».
E tutto questo, a fini esclusivamente politici?
«Vedo giornali che si sono trasformati in strumento di organizzazione politica della società italiana, come se fossero tutti quotidiani di partito.
La personalizzazione degli attacchi è l’ovvia conseguenza di questo profondo mutamento: la logica non è quella dell’informazione, ma quella dell’aggressione. Va sottolineato che né a Berlusconi né a Boffo, pur nella grande differenza delle due situazioni, è stato contestato alcun elemento giuridico che potesse rappresentare un impedimento al loro ruolo: a essere messa in discussione è stata la loro onorabilità individuale, e per farlo si sono usati argomenti relativi alla sfera estremamente personale della vita intima. Con due possibili significati: da un lato, è intimidazione o ricatto; dall’altro, è propaganda politica radicata nella contumelia».
Sembra anche che si perso ogni confine di genere: i quotidiani d’informazione si confondono con la stampa scandalistica...
«Senza dubbio non è eccessivo parlare di imbarbarimento, perché c’è stato un effettivo salto qualitativo della nostra stampa. Ci sono sempre stati, anche in passato, 'scandali' veri o presunti: però la loro eco giungeva solo di riflesso ai grandi organi informazione. Oggi, invece, ne sono diventati il fulcro e il giornalista di successo non è quello capace di scoprire delle verità di interesse generale, ma quello in grado di insinuare 'verosimiglianze' più o meno legali, senza fonti che le sostengano. Non è un caso che in questi tempi ci sia tanta confusione di ruoli tra politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo, comici soprattutto. Uno strano amalgama di persone che, invocando l’intoccabilità della libertà di stampa o del diritto di satira, pensano di non dovere fornire le prove di quel che dicono e, al tempo stesso, di essere autorizzati a frugare ogni aspetto della vita privata».
Vede, insomma, una tendenza generalizzata?
«La deriva, a mio giudizio, investe in questo momento quasi tutto lo schieramento politico-mediatico: da La Repubblica a Il Giornale, sono tutti d’accordo nel sostituire il giornalismo con un atteggiamento di superiorità, da tutori della pubblica moralità. Il che per me non è solo mancanza di etica, ma anche di capacità tecnica e di deontologia professionale ».
E i lettori?
«Smettono di acquistare il 'prodotto' e si rivolgono altrove, magari all’informazione diffusa su internet.
Infatti negli ultimi anni i quotidiani hanno registrato un notevole calo di tiratura complessiva, ma questo non sembra preoccupare più di tanto gli editori: tanto, i loro giornali servono non a vendere, ma a ottenere vantaggi di altro tipo, trasversali, facendo leva proprio sul potere di cui dispongono».
Ma esistono davvero altri media, diversi dalla stampa quotidiana, non piegati a questa logica?
«No: il problema del circuito mediatico nel suo complesso è che gran parte delle notizie è costituita da quanto detto o successo su un altro media. C’è un rimbalzo continuo, con i quotidiani che commentano quello che hanno visto in televisione e viceversa, in un’ininterrotta amplificazione: come nelle vecchie botteghe dei barbieri, due specchi uno di fronte all’altro moltiplicano le stesse figure all’infinito».
Anche internet? «Certo, anzi: dalla Rete viene un elemento ulteriore, decisivo nell’evoluzione subita negli ultimi anni dal sistema dell’informazione nel suo complesso. La logica fondamentale del cosiddetto web 2.0, quello nel quale autori e fruitori si sovrappongono, consiste in un enorme abbassamento delle barriere di accesso, fino a eliminare ogni distinzione tra competenza e incompetenza. In qualche modo infastidita dal sapere, la gente pensa che sia giusto, democratico e opportuno dire la propria su qualunque cosa: s’impone la chiacchiera a ruota libera dove le contraddizioni non importano, le falsità non hanno peso, gli errori non si scontano».
Quello «per la libertà di stampa» lanciato da «La Repubblica» dopo essere stata querelata da Berlusconi non è forse comprensibile?
«Sono rimasto colpito assai negativamente dalla chiamata rivolta da Repubblica a tutti gli amici della testata, indicando con grande rilievo nomi e cognomi, affinché protestino contro la citazione in giudizio.
Come se libertà di stampa e l’intervento dei tribunali – il cui ruolo è proprio la tutela della libertà, oltre che la definizione dei suoi confini laddove inizia la libertà altrui – fossero in contrasto. Come se la libertà potesse andare al di là della verità e del diritto delle persone a difendere la propria sfera privata, al di là di qualunque possibile valutazione da parte della legge».
E tutto questo, a fini esclusivamente politici?
«Vedo giornali che si sono trasformati in strumento di organizzazione politica della società italiana, come se fossero tutti quotidiani di partito.
La personalizzazione degli attacchi è l’ovvia conseguenza di questo profondo mutamento: la logica non è quella dell’informazione, ma quella dell’aggressione. Va sottolineato che né a Berlusconi né a Boffo, pur nella grande differenza delle due situazioni, è stato contestato alcun elemento giuridico che potesse rappresentare un impedimento al loro ruolo: a essere messa in discussione è stata la loro onorabilità individuale, e per farlo si sono usati argomenti relativi alla sfera estremamente personale della vita intima. Con due possibili significati: da un lato, è intimidazione o ricatto; dall’altro, è propaganda politica radicata nella contumelia».
Sembra anche che si perso ogni confine di genere: i quotidiani d’informazione si confondono con la stampa scandalistica...
«Senza dubbio non è eccessivo parlare di imbarbarimento, perché c’è stato un effettivo salto qualitativo della nostra stampa. Ci sono sempre stati, anche in passato, 'scandali' veri o presunti: però la loro eco giungeva solo di riflesso ai grandi organi informazione. Oggi, invece, ne sono diventati il fulcro e il giornalista di successo non è quello capace di scoprire delle verità di interesse generale, ma quello in grado di insinuare 'verosimiglianze' più o meno legali, senza fonti che le sostengano. Non è un caso che in questi tempi ci sia tanta confusione di ruoli tra politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo, comici soprattutto. Uno strano amalgama di persone che, invocando l’intoccabilità della libertà di stampa o del diritto di satira, pensano di non dovere fornire le prove di quel che dicono e, al tempo stesso, di essere autorizzati a frugare ogni aspetto della vita privata».
Vede, insomma, una tendenza generalizzata?
«La deriva, a mio giudizio, investe in questo momento quasi tutto lo schieramento politico-mediatico: da La Repubblica a Il Giornale, sono tutti d’accordo nel sostituire il giornalismo con un atteggiamento di superiorità, da tutori della pubblica moralità. Il che per me non è solo mancanza di etica, ma anche di capacità tecnica e di deontologia professionale ».
E i lettori?
«Smettono di acquistare il 'prodotto' e si rivolgono altrove, magari all’informazione diffusa su internet.
Infatti negli ultimi anni i quotidiani hanno registrato un notevole calo di tiratura complessiva, ma questo non sembra preoccupare più di tanto gli editori: tanto, i loro giornali servono non a vendere, ma a ottenere vantaggi di altro tipo, trasversali, facendo leva proprio sul potere di cui dispongono».
Ma esistono davvero altri media, diversi dalla stampa quotidiana, non piegati a questa logica?
«No: il problema del circuito mediatico nel suo complesso è che gran parte delle notizie è costituita da quanto detto o successo su un altro media. C’è un rimbalzo continuo, con i quotidiani che commentano quello che hanno visto in televisione e viceversa, in un’ininterrotta amplificazione: come nelle vecchie botteghe dei barbieri, due specchi uno di fronte all’altro moltiplicano le stesse figure all’infinito».
Anche internet? «Certo, anzi: dalla Rete viene un elemento ulteriore, decisivo nell’evoluzione subita negli ultimi anni dal sistema dell’informazione nel suo complesso. La logica fondamentale del cosiddetto web 2.0, quello nel quale autori e fruitori si sovrappongono, consiste in un enorme abbassamento delle barriere di accesso, fino a eliminare ogni distinzione tra competenza e incompetenza. In qualche modo infastidita dal sapere, la gente pensa che sia giusto, democratico e opportuno dire la propria su qualunque cosa: s’impone la chiacchiera a ruota libera dove le contraddizioni non importano, le falsità non hanno peso, gli errori non si scontano».
«Avvenire» del 10 settembre 2009
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