Esce in Italia il libro del filosofo Fabrice Hadjadj che rivaluta la teologia del corpo e della sessualità secondo il pensiero cattolico
di Fabrice Hadjadj
È stato spesso detto che la Chiesa cattolica riuniva nel suo grembo Atene e Gerusalemme. In questo grembo, dunque, come in quello di Rebecca, i due gemelli si confrontano? La rivelazione ebraica porta in sé la gloria della carne. Il pensiero greco, dapprima, non può contrapporle altro che una forte resistenza. Per gli epicurei, il corpo è piuttosto luogo di piacere, ma la morte lo decompone irrimediabilmente.
Per i platonizzanti, il corpo è piuttosto tomba, ma il trapasso opera la liberazione dell’anima. Che imbarazzo per gli apostoli, se fossero stati filosofi, dover proclamare quella Buona Novella così tesa che non può accomodarsi a nessuna delle due opposte posizioni.
Essi devono annunciare lo Spirito che libera e, al contempo, predicare il Verbo fatto carne – peggio: il Messia crocifisso, che resuscita dopo tre giorni senza che le sue piaghe scompaiano. Al cospetto di una simile dottrina, il materialista edonista e lo spiritualista etereo, solitamente avversari tra loro, si spalleggiano immediatamente facendosene beffe entrambi.
Quando l’ebreo Paolo parla davanti all’Areopago, tutti lo ascoltano fintanto ch’egli non testimonia della resurrezione: «Quando sentirono parlare di resurrezione dei morti, alcuni lo canzonarono, altri dicevano: 'Su questo argomento ti sentiremo ancora un’altra volta'» ( At 17, 32). Resistono costoro al discorso di Paolo? Non rimangono piuttosto intrappolati nelle loro reciproche contrapposizioni? La predicazione dell’apostolo presenta, per gli uni, l’esaltazione del corpo e, per gli altri, l’esigenza dello spirito. Essa avrebbe potuto riconciliarli. Ma, per coloro che rimangono presi nei riflessi di una vecchia polemica, l’annuncio di una concordia superiore risulta incomprensibile.
Il mistero dell’Incarnazione entra certamente in risonanza con le profondità del nostro cuore.
Dapprima, però, esso appare assurdo alla nostra ragione. Gli spiritualisti lo trovano troppo materiale, i materialisti troppo spirituale, e ognuno attribuisce a esso l’errore del proprio nemico congenito. La Chiesa, tuttavia, conserva l’estrema tensione della formula giovannea: «E il Verbo si è fatto carne» ( Gv 1, 14). Perché «carne», e non «uomo»? Si può osservare che «carne» designa attraverso una sineddoche l’uomo nel suo complesso, corpo e anima, e comunque è il termine Incarnatio che ha prevalso, e non Inhumanatio, che l’oggi dimenticato Facondo d’Ermiane cercò di introdurre nella teologia latina. Scelta tanto più difficile in quanto la parola «carne» ha altre accezioni che danno una strana connotazione alla formula. È la stessa parola usata quando si parla degli sposi che fanno «una sola carne» ( Mc 10,8); è la stessa usata da Paolo quando nomina ciò che si ribella contro Dio: «La carne infatti ha desiderio contro lo Spirito» ( Ga 5, 17). Contro gli spiritualisti, sant’Agostino sottolinea che quest’ultima accezione è equivoca. Quando Paolo utilizza «carne» per designare ciò che ci spinge al male, bisogna intendere «orgoglio», «l’uomo è divenuto simile al diavolo, non per il fatto che ha la carne, che il diavolo non ha, ma poiché vive secondo se stesso, cioè secondo l’uomo» ( De civ. Dei, XIV 3, 2). Il Nuovo Testamento comunque, invece di usare termini diversi, ne utilizza uno solo, a rischio di gettare i lettori nello sconcerto e dar adito a una erronea interpretazione che avvicina il cristianesimo al disprezzo del corpo. Il testo è dunque scritto male? Non sarebbe stato meglio distinguere con tre parole diverse la carne che il Verbo assume, la carne che l’uomo e la donna formano nell’amplesso e quella carne che è unicamente inclinazione all’ignominia? Non si sarebbero evitate così sgradevoli confusioni? Certamente. Ma la Sacra Scrittura sarebbe stata allora soltanto un’opera speculativa, invece di essere, in primo luogo, un luogo di prova. I suoi diversi usi della parola «carne» dipendono più da un’interrogazione decisiva che da un’approssimazione linguistica: il Verbo fatto carne è altresì l’Eterno che, sposando l’umanità, costituisce una sola carne, ed è anche il santo che assume la nostra carne di concupiscenza, abbassandosi alla condizione del malfattore... Equazione così sconvolgente che esige da parte del lettore un atto di fede più che un’interpretazione teorica.
L’Incarnazione del pensatore convertito
Come ha detto di lui Alain Finkielkraut, Fabrice Hadjadj porta un nome arabo, è ebreo di nascita e cattolico per scelta. Molto stimato anche dal filosofo Remi Brague, Hadjadj, a soli 38 anni ha già pubblicato in Francia vari volumi di riflessione filosofica e opere teatrali. «Mistica della carne. La profondità dei sessi», che esce in questi giorni in libreria per Medusa (pagine 200, euro 17,50) è il primo libro fra quelli che Hadjadj ha scritto che viene tradotto in Italia. Anticipiamo in questa pagina alcuni brani sul mistero dell’Incarnazione.
Per i platonizzanti, il corpo è piuttosto tomba, ma il trapasso opera la liberazione dell’anima. Che imbarazzo per gli apostoli, se fossero stati filosofi, dover proclamare quella Buona Novella così tesa che non può accomodarsi a nessuna delle due opposte posizioni.
Essi devono annunciare lo Spirito che libera e, al contempo, predicare il Verbo fatto carne – peggio: il Messia crocifisso, che resuscita dopo tre giorni senza che le sue piaghe scompaiano. Al cospetto di una simile dottrina, il materialista edonista e lo spiritualista etereo, solitamente avversari tra loro, si spalleggiano immediatamente facendosene beffe entrambi.
Quando l’ebreo Paolo parla davanti all’Areopago, tutti lo ascoltano fintanto ch’egli non testimonia della resurrezione: «Quando sentirono parlare di resurrezione dei morti, alcuni lo canzonarono, altri dicevano: 'Su questo argomento ti sentiremo ancora un’altra volta'» ( At 17, 32). Resistono costoro al discorso di Paolo? Non rimangono piuttosto intrappolati nelle loro reciproche contrapposizioni? La predicazione dell’apostolo presenta, per gli uni, l’esaltazione del corpo e, per gli altri, l’esigenza dello spirito. Essa avrebbe potuto riconciliarli. Ma, per coloro che rimangono presi nei riflessi di una vecchia polemica, l’annuncio di una concordia superiore risulta incomprensibile.
Il mistero dell’Incarnazione entra certamente in risonanza con le profondità del nostro cuore.
Dapprima, però, esso appare assurdo alla nostra ragione. Gli spiritualisti lo trovano troppo materiale, i materialisti troppo spirituale, e ognuno attribuisce a esso l’errore del proprio nemico congenito. La Chiesa, tuttavia, conserva l’estrema tensione della formula giovannea: «E il Verbo si è fatto carne» ( Gv 1, 14). Perché «carne», e non «uomo»? Si può osservare che «carne» designa attraverso una sineddoche l’uomo nel suo complesso, corpo e anima, e comunque è il termine Incarnatio che ha prevalso, e non Inhumanatio, che l’oggi dimenticato Facondo d’Ermiane cercò di introdurre nella teologia latina. Scelta tanto più difficile in quanto la parola «carne» ha altre accezioni che danno una strana connotazione alla formula. È la stessa parola usata quando si parla degli sposi che fanno «una sola carne» ( Mc 10,8); è la stessa usata da Paolo quando nomina ciò che si ribella contro Dio: «La carne infatti ha desiderio contro lo Spirito» ( Ga 5, 17). Contro gli spiritualisti, sant’Agostino sottolinea che quest’ultima accezione è equivoca. Quando Paolo utilizza «carne» per designare ciò che ci spinge al male, bisogna intendere «orgoglio», «l’uomo è divenuto simile al diavolo, non per il fatto che ha la carne, che il diavolo non ha, ma poiché vive secondo se stesso, cioè secondo l’uomo» ( De civ. Dei, XIV 3, 2). Il Nuovo Testamento comunque, invece di usare termini diversi, ne utilizza uno solo, a rischio di gettare i lettori nello sconcerto e dar adito a una erronea interpretazione che avvicina il cristianesimo al disprezzo del corpo. Il testo è dunque scritto male? Non sarebbe stato meglio distinguere con tre parole diverse la carne che il Verbo assume, la carne che l’uomo e la donna formano nell’amplesso e quella carne che è unicamente inclinazione all’ignominia? Non si sarebbero evitate così sgradevoli confusioni? Certamente. Ma la Sacra Scrittura sarebbe stata allora soltanto un’opera speculativa, invece di essere, in primo luogo, un luogo di prova. I suoi diversi usi della parola «carne» dipendono più da un’interrogazione decisiva che da un’approssimazione linguistica: il Verbo fatto carne è altresì l’Eterno che, sposando l’umanità, costituisce una sola carne, ed è anche il santo che assume la nostra carne di concupiscenza, abbassandosi alla condizione del malfattore... Equazione così sconvolgente che esige da parte del lettore un atto di fede più che un’interpretazione teorica.
L’Incarnazione del pensatore convertito
Come ha detto di lui Alain Finkielkraut, Fabrice Hadjadj porta un nome arabo, è ebreo di nascita e cattolico per scelta. Molto stimato anche dal filosofo Remi Brague, Hadjadj, a soli 38 anni ha già pubblicato in Francia vari volumi di riflessione filosofica e opere teatrali. «Mistica della carne. La profondità dei sessi», che esce in questi giorni in libreria per Medusa (pagine 200, euro 17,50) è il primo libro fra quelli che Hadjadj ha scritto che viene tradotto in Italia. Anticipiamo in questa pagina alcuni brani sul mistero dell’Incarnazione.
«Avvenire» del 9 settembre 2009
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