Parla il teologo domenicano francese Jean-Pierre Jossua, ospite a Torino spiritualità: «La letteratura è anche luogo teologico»
di Daniele Zappalà
« Quando diventa ricerca dell’assoluto, la poesia ritrova spesso ancor oggi le forme del linguaggio proprie della mistica ». È una delle conclusioni principali del teologo domenicano francese Jean-Pierre Jossua, già noto come condirettore della rivista Concilium, ma al contempo concentrato da decenni su ciò che ha definito egli stesso come 'teologia letteraria'. Ne parlerà domenica prossima alle 17.30 alla Biblioteca Nazionale nel corso di Torino spiritualità, al via domani. In Italia, Diabasis ha tradotto La letteratura: inquietudine dell’assoluto.
Cosa intende per teologia letteraria?
«Si tratta di leggere teologicamente la letteratura, la quale può talora essere un luogo teologico. Sia perché degli autori d’ispirazione cristiana vi hanno riversato la loro fede, sia nel caso di scrittori agnostici ma in cerca di assoluto in un altro modo. È possibile ispirarsi anche a questi ultimi autori persino per rinnovare il linguaggio religioso. Ma si può immaginare anche un altro senso, che consisterebbe nell’esprimere la meditazione della fede con gli strumenti della letteratura».
Søren Kierkegaard è molto presente nei suoi scritti. Perché?
«Kierkegaard, col suo itinerario esistenziale e la sua percezione dialettica della fede, ha offerto molto alle mie analisi. Pur sedotto dall’estetica e dalle sue categorie, Kierkegaard comprende che essa si arresta sulla soglia della fede. C’è una nuova etica nella fede, ma non un’estetica della fede. Kierkegaard si oppone alla razionalità invadente e onnicomprensiva di Hegel. Per l’autore danese, le categorie razionali ereditate dal pensiero greco non sono più adeguate ad esprimere l’uomo e la fede».
Fra le figure della letteratura moderna in cerca di assoluto, quali l’hanno colpita maggiormente?
«In Francia, Marcel Proust e dei poeti come Yves Bonnefoy o Pierre Reverdy. Citerei poi, fra tanti altri, Cechov, Melville, Leopardi o Hölderlin. Ciascuno ha un percorso originale. Vi sono ad esempio scrittori religiosi e non cristiani, o cristiani ma in un modo atipico, o agnostici alla ricerca dell’assoluto, o già pronti all’esperienza di Dio».
Questi autori ci parlano anche dei limiti dell’uomo?
«Spesso, essi confessano l’impossibilità per l’uomo di un raggiungimento pieno dell’assoluto. Ma talora esprimendo il senso di quella massima di un sufista che dice: 'Sia benedetto Dio che non ci ha dato altri mezzi di raggiungere la sua conoscenza se non l’impossibilità di raggiungere la sua conoscenza'. Anche quando si crede nella prossimità di Dio, è impossibile una piena conoscenza. A meno di non considerare la conoscenza attraverso la fede come una conoscenza autentica. L’Ottocento è attraversato da personaggi religiosi come Hugo, Novalis o Rilke, le cui esperienze possono essere definite religiose senza essere sempre esperienze di fede. Altri, come Saint-John Perse, provano l’esperienza del sacro, cioè della presenza di Dio nel mondo».
L’esperienza del trascendere comincia con un interrogativo su se stessi?
«L’interrogativo socratico resta il cammino privilegiato per una scoperta dell’assoluto, soprattutto da quando la scienza moderna tende a ridurre il cosmo a puro fenomeno ».
Mauriac si chiedeva se Dio ha bisogno degli scrittori. Cosa risponderebbe?
«Non oserei dirlo. E basta, in questo senso, ritornare al Vangelo. Se Dio ha bisogno di testimoni, sono i poveri e i semplici. La testimonianza di Dio si esprime attraverso ciò che indica la strada della carità. Dio, dunque, non ha bisogno degli scrittori. Ma è vero che un certo numero di scrittori sono stati capaci d’irrorare l’immaginario della fede dei propri contemporanei. Si può dunque parlare di una loro funzione nella vita culturale del Vangelo».
Fra gli autori ottocenteschi da lei citati, figurano tanti romanzieri. Fra quelli novecenteschi, prevalgono i poeti. Un caso?
«Non prediligo un genere rispetto a un altro. Ma mi pare che la ricerca dell’assoluto si sia sedimentata e affermata di recente più spesso nella lirica. Ciò deve certamente avere un senso, ma è estremamente difficile teorizzare che la natura stessa della poesia coincida maggiormente con una ricerca dell’assoluto ».
L’aspirazione verso l’assoluto della poesia ha origini lontane?
«Certamente. Si pensi a Dante e a tutta la tradizione della poesia cristiana. Ma c’è una chiara continuità nel Novecento. Nel caso della poesia italiana, si possono citare Ungaretti, Montale, Luzi, Pasolini. Anche se naturalmente ciascuno ha seguito una strada molto personale ».
Lei si mostra molto attento anche alla poesia italiana novecentesca al femminile…
«Grazie a Yves Bonnefoy, ho letto un’autrice come Maria Luisa Spaziani. Ed ho scoperto con gioia una notevole tensione verso l’assoluto anche in poetesse come Cristina Campo e Margherita Guidacci. Si è però trattato d’incontri quasi casuali, data la circolazione limitata della poesia contemporanea».
Quest’odierno carattere sommerso e quasi clandestino della poesia è un segno dei tempi?
«È difficile dirlo. Probabilmente c’è stata una ricerca formale talora eccessiva e sterile che ha reso la poesia meno accessibile, anche se l’alta poesia è rimasta comunque sempre a distanza rispetto al linguaggio utilitario e a quello strettamente razionale. Si può dire forse qualcosa di simile per la musica di qualità. In Francia, gli ultimi poeti davvero popolari sono stati Aragon e Prévert. Non definirei la loro produzione eccelsa, ma sono stati molto veicolati dalla canzone. E in proposito, è vero che certe canzoni contemporanee possiedono una qualità poetica indiscutibile».
Cosa intende per teologia letteraria?
«Si tratta di leggere teologicamente la letteratura, la quale può talora essere un luogo teologico. Sia perché degli autori d’ispirazione cristiana vi hanno riversato la loro fede, sia nel caso di scrittori agnostici ma in cerca di assoluto in un altro modo. È possibile ispirarsi anche a questi ultimi autori persino per rinnovare il linguaggio religioso. Ma si può immaginare anche un altro senso, che consisterebbe nell’esprimere la meditazione della fede con gli strumenti della letteratura».
Søren Kierkegaard è molto presente nei suoi scritti. Perché?
«Kierkegaard, col suo itinerario esistenziale e la sua percezione dialettica della fede, ha offerto molto alle mie analisi. Pur sedotto dall’estetica e dalle sue categorie, Kierkegaard comprende che essa si arresta sulla soglia della fede. C’è una nuova etica nella fede, ma non un’estetica della fede. Kierkegaard si oppone alla razionalità invadente e onnicomprensiva di Hegel. Per l’autore danese, le categorie razionali ereditate dal pensiero greco non sono più adeguate ad esprimere l’uomo e la fede».
Fra le figure della letteratura moderna in cerca di assoluto, quali l’hanno colpita maggiormente?
«In Francia, Marcel Proust e dei poeti come Yves Bonnefoy o Pierre Reverdy. Citerei poi, fra tanti altri, Cechov, Melville, Leopardi o Hölderlin. Ciascuno ha un percorso originale. Vi sono ad esempio scrittori religiosi e non cristiani, o cristiani ma in un modo atipico, o agnostici alla ricerca dell’assoluto, o già pronti all’esperienza di Dio».
Questi autori ci parlano anche dei limiti dell’uomo?
«Spesso, essi confessano l’impossibilità per l’uomo di un raggiungimento pieno dell’assoluto. Ma talora esprimendo il senso di quella massima di un sufista che dice: 'Sia benedetto Dio che non ci ha dato altri mezzi di raggiungere la sua conoscenza se non l’impossibilità di raggiungere la sua conoscenza'. Anche quando si crede nella prossimità di Dio, è impossibile una piena conoscenza. A meno di non considerare la conoscenza attraverso la fede come una conoscenza autentica. L’Ottocento è attraversato da personaggi religiosi come Hugo, Novalis o Rilke, le cui esperienze possono essere definite religiose senza essere sempre esperienze di fede. Altri, come Saint-John Perse, provano l’esperienza del sacro, cioè della presenza di Dio nel mondo».
L’esperienza del trascendere comincia con un interrogativo su se stessi?
«L’interrogativo socratico resta il cammino privilegiato per una scoperta dell’assoluto, soprattutto da quando la scienza moderna tende a ridurre il cosmo a puro fenomeno ».
Mauriac si chiedeva se Dio ha bisogno degli scrittori. Cosa risponderebbe?
«Non oserei dirlo. E basta, in questo senso, ritornare al Vangelo. Se Dio ha bisogno di testimoni, sono i poveri e i semplici. La testimonianza di Dio si esprime attraverso ciò che indica la strada della carità. Dio, dunque, non ha bisogno degli scrittori. Ma è vero che un certo numero di scrittori sono stati capaci d’irrorare l’immaginario della fede dei propri contemporanei. Si può dunque parlare di una loro funzione nella vita culturale del Vangelo».
Fra gli autori ottocenteschi da lei citati, figurano tanti romanzieri. Fra quelli novecenteschi, prevalgono i poeti. Un caso?
«Non prediligo un genere rispetto a un altro. Ma mi pare che la ricerca dell’assoluto si sia sedimentata e affermata di recente più spesso nella lirica. Ciò deve certamente avere un senso, ma è estremamente difficile teorizzare che la natura stessa della poesia coincida maggiormente con una ricerca dell’assoluto ».
L’aspirazione verso l’assoluto della poesia ha origini lontane?
«Certamente. Si pensi a Dante e a tutta la tradizione della poesia cristiana. Ma c’è una chiara continuità nel Novecento. Nel caso della poesia italiana, si possono citare Ungaretti, Montale, Luzi, Pasolini. Anche se naturalmente ciascuno ha seguito una strada molto personale ».
Lei si mostra molto attento anche alla poesia italiana novecentesca al femminile…
«Grazie a Yves Bonnefoy, ho letto un’autrice come Maria Luisa Spaziani. Ed ho scoperto con gioia una notevole tensione verso l’assoluto anche in poetesse come Cristina Campo e Margherita Guidacci. Si è però trattato d’incontri quasi casuali, data la circolazione limitata della poesia contemporanea».
Quest’odierno carattere sommerso e quasi clandestino della poesia è un segno dei tempi?
«È difficile dirlo. Probabilmente c’è stata una ricerca formale talora eccessiva e sterile che ha reso la poesia meno accessibile, anche se l’alta poesia è rimasta comunque sempre a distanza rispetto al linguaggio utilitario e a quello strettamente razionale. Si può dire forse qualcosa di simile per la musica di qualità. In Francia, gli ultimi poeti davvero popolari sono stati Aragon e Prévert. Non definirei la loro produzione eccelsa, ma sono stati molto veicolati dalla canzone. E in proposito, è vero che certe canzoni contemporanee possiedono una qualità poetica indiscutibile».
«Avvenire» del 22 settembre 2009
Nessun commento:
Posta un commento