Sartori e la legge sul fine vita
di Francesco D'Agostino
Oltre che il dibattito politico in Italia si stia imbarbarendo anche quello delle idee. Intellettuali, dai quali dovremmo aspettarci pacatezza, rigore, considerazioni lucide e precise, sono ormai soliti a rinunciare a qualsivoglia argomentazione, sostituendola con slogan e invettive. Quando si vede Giovanni Sartori prendere una posizione grossolana, come quella assunta ieri sulla prima pagina 'Corriere della Sera' («Il testamento senza volontà»), viene da pensare che egli stia bruciando definitivamente quel grande patrimonio di credibilità, che ha accumulato in tanti anni di serio lavoro.
Ciò che rileva nell’intervento di Sartori non è il suo palese e ben noto anticlericalismo, anche se non si vede perché, per criticare il disegno di legge sul fine vita, egli debba prendersela con la posizione del Papa sugli anticoncezionali e formulare veri e propri insulti contro coloro che non la pensano come lui, accusandoli di professare un «rinato sanfedismo, che acceca la ragione». Il punto è che nelle posizioni di Sartori emerge solo il pregiudizio, dato che manca un adeguato e corretto riferimento ai 'fatti' e questo peccato, se compiuto da un intellettuale, è davvero 'mortale'. Se è corretto da parte di Sartori ricordare che il cardinal Bagnasco ha negato l’esistenza di un «diritto di morire», è assolutamente scorretto da parte sua non ricordare contestualmente al lettore che le posizioni del presidente della Cei non hanno alcun carattere strettamente religioso, dato che corrispondono a quelle (condivisibili o meno che siano) dell’etica medica ippocratica. Non è lecito, per meglio stigmatizzare le posizioni che si avversano, presentarle al lettore come confessionali. Lasciamo queste scorrettezze ai politici (o, meglio, a quei politici che vogliano adoperarle).
Sartori non ha evidentemente la minima idea di quanto sia complesso il tema del testamento biologico. Altrimenti non farebbe riferimento, con un semplicismo impressionante, all’«unico diritto di libertà assoluto, che spetta soltanto a me», perché «solitario», cioè al «diritto di morire (di morte naturale) come scelgo». Sembra che Sartori abbia in mente la facoltà (non il diritto!) che ha ciascuno di suicidarsi e la confonda con un (preteso) diritto di «essere suicidato» o comunque di essere «aiutato a morire» (cioè di essere eutanasizzato). Non c’è dubbio che uccidersi sia un atto «solitario», così come però non c’è dubbio che legalizzare il testamento biologico attivi una pratica clinica e sociale (quindi tutt’altro che «solitaria»), che mette in questione, anzi rivoluziona, tutti i protocolli di trattamento dei malati terminali, in stato vegetativo o di assoluta incapacità.
L’affermazione più grave che fa Sartori è però un’altra: egli sostiene che il disegno di legge sul testamento biologico in discussione alla Camera sia un testamento che viola la volontà del testatore. Non è vero. Già il solo dare valore legale alle dichiarazioni anticipate di trattamento ed esigere che il medico le prenda in considerazione, valutandole in scienza e coscienza, introduce nella prassi clinica e nelle relazioni medico-paziente elementi innovativi di carattere realmente straordinario. Il vero punto della questione è però un altro: se sia opportuno vincolare il medico alla volontà del paziente, nei casi in cui costui chieda un abbandono terapeutico, che non abbia giustificazione clinica (che cioè non si configuri come una legittima richiesta di cessazione dell’accanimento). I fautori dell’autodeterminazione (in genere coloro che fanno bioetica filosofica) ritengono che la volontà (anche dichiarata in anticipo) del paziente debba essere sempre vincolante. Chi invece fa bioetica clinica, cioè al letto del malato, sa bene quanto sia astratto parlare di autodeterminazione con riferimento alla volontà di un paziente, in specie se anziano, impaurito, angosciato, in stato di confusione mentale o consapevole di essere comunque giunto alla fase finale della sua vita.
Ecco perché, a mio avviso saggiamente, la legge impone in linea di principio che sia doveroso porre in essere tutte le pratiche di sostegno vitale (nella speranza, anche se lieve, che il malato possa, se non guarire, almeno migliorare significativamente) e che sia comunque il medico ad assumersi la responsabilità di dare corso o di non dare corso alla volontà espressa in un testamento biologico, dopo averla attentamente soppesata e soprattutto motivando specificamente le sue ragioni. Elaborando queste argomentazioni, io e tanti altri assieme a me non vi troviamo nulla di confessionale, né ci sentiamo accecati dalla nostra fede: possiamo sperare che Giovanni Sartori ce ne dia atto?
Ciò che rileva nell’intervento di Sartori non è il suo palese e ben noto anticlericalismo, anche se non si vede perché, per criticare il disegno di legge sul fine vita, egli debba prendersela con la posizione del Papa sugli anticoncezionali e formulare veri e propri insulti contro coloro che non la pensano come lui, accusandoli di professare un «rinato sanfedismo, che acceca la ragione». Il punto è che nelle posizioni di Sartori emerge solo il pregiudizio, dato che manca un adeguato e corretto riferimento ai 'fatti' e questo peccato, se compiuto da un intellettuale, è davvero 'mortale'. Se è corretto da parte di Sartori ricordare che il cardinal Bagnasco ha negato l’esistenza di un «diritto di morire», è assolutamente scorretto da parte sua non ricordare contestualmente al lettore che le posizioni del presidente della Cei non hanno alcun carattere strettamente religioso, dato che corrispondono a quelle (condivisibili o meno che siano) dell’etica medica ippocratica. Non è lecito, per meglio stigmatizzare le posizioni che si avversano, presentarle al lettore come confessionali. Lasciamo queste scorrettezze ai politici (o, meglio, a quei politici che vogliano adoperarle).
Sartori non ha evidentemente la minima idea di quanto sia complesso il tema del testamento biologico. Altrimenti non farebbe riferimento, con un semplicismo impressionante, all’«unico diritto di libertà assoluto, che spetta soltanto a me», perché «solitario», cioè al «diritto di morire (di morte naturale) come scelgo». Sembra che Sartori abbia in mente la facoltà (non il diritto!) che ha ciascuno di suicidarsi e la confonda con un (preteso) diritto di «essere suicidato» o comunque di essere «aiutato a morire» (cioè di essere eutanasizzato). Non c’è dubbio che uccidersi sia un atto «solitario», così come però non c’è dubbio che legalizzare il testamento biologico attivi una pratica clinica e sociale (quindi tutt’altro che «solitaria»), che mette in questione, anzi rivoluziona, tutti i protocolli di trattamento dei malati terminali, in stato vegetativo o di assoluta incapacità.
L’affermazione più grave che fa Sartori è però un’altra: egli sostiene che il disegno di legge sul testamento biologico in discussione alla Camera sia un testamento che viola la volontà del testatore. Non è vero. Già il solo dare valore legale alle dichiarazioni anticipate di trattamento ed esigere che il medico le prenda in considerazione, valutandole in scienza e coscienza, introduce nella prassi clinica e nelle relazioni medico-paziente elementi innovativi di carattere realmente straordinario. Il vero punto della questione è però un altro: se sia opportuno vincolare il medico alla volontà del paziente, nei casi in cui costui chieda un abbandono terapeutico, che non abbia giustificazione clinica (che cioè non si configuri come una legittima richiesta di cessazione dell’accanimento). I fautori dell’autodeterminazione (in genere coloro che fanno bioetica filosofica) ritengono che la volontà (anche dichiarata in anticipo) del paziente debba essere sempre vincolante. Chi invece fa bioetica clinica, cioè al letto del malato, sa bene quanto sia astratto parlare di autodeterminazione con riferimento alla volontà di un paziente, in specie se anziano, impaurito, angosciato, in stato di confusione mentale o consapevole di essere comunque giunto alla fase finale della sua vita.
Ecco perché, a mio avviso saggiamente, la legge impone in linea di principio che sia doveroso porre in essere tutte le pratiche di sostegno vitale (nella speranza, anche se lieve, che il malato possa, se non guarire, almeno migliorare significativamente) e che sia comunque il medico ad assumersi la responsabilità di dare corso o di non dare corso alla volontà espressa in un testamento biologico, dopo averla attentamente soppesata e soprattutto motivando specificamente le sue ragioni. Elaborando queste argomentazioni, io e tanti altri assieme a me non vi troviamo nulla di confessionale, né ci sentiamo accecati dalla nostra fede: possiamo sperare che Giovanni Sartori ce ne dia atto?
«Avvenire» del 17 settembre 2009
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