22 dicembre 2010

Il fantasy non basta, meglio tornare all'epica

di Daniele Piccini
Da tempo la cultura occidentale sembra aver rinunciato all’idea dell’epos tradizionale come un genere ormai impraticabile. Così alcuni si sono convinti che una sorta di epos moderno possa essere riconosciuto nel fantasy, con le sue cosmogonie e i suoi scontri tra bene e male: da quello più alto e intriso di erudizione di Tolkien e Lewis fino a quello più blando di «Harry Potter». Ma davvero l’epica intesa come continuazione dei grandi miti classici è improseguibile? I tentativi recenti di poemi di ampio respiro ci vengono da poeti extra-europei, come il caraibico Derek Walcott, con «Omeros» e con «Il levriero di Tiepolo», e come l’australiano Les Murray, autore di «Freddy Nettuno». Eppure da una delle patrie della civiltà classica, la Grecia, nel corso della prima metà del Novecento venne una sovrabbondante e prepotente ripresa dell’epos, un’opera fluviale che avrebbe dovuto, più che rovesciare modernamente il mito omerico di Odisseo, proseguirlo, ampliarlo, arricchirlo con acquisizioni antropologiche e religiose, senza mai perdere di vista il senso di un grandioso e rapinoso racconto. Stiamo parlando dell’«Odissea» di Nikos Kazantzakis (1883-1957), l’opera più ambiziosa che la poesia moderna abbia prodotto: 33.333 versi distribuiti in 24 canti; più del doppio, entro lo stesso numero di libri, di ognuno dei due poemi omerici. Si tratta di un vero e proprio sequel, che riprende la narrazione dalla fine dell’Odissea. Uccisi i proci, Ulisse viene ripudiato come selvaggio e sanguinario dalla moglie e insidiato dal figlio e si rimette in viaggio, insieme a pochi compagni. Approda a Sparta, convince alla fuga l’ancora bellissima Elena, che poi viene lasciata a Creta, dove Ulisse annienta il regno di Idomeneo. Quindi il «grande Viaggiatore» giunge in Egitto, partecipando a una sommossa contro un faraone-poeta. Si spinge in seguito alla ricerca delle fonti del Nilo, con l’idea di fondare una città ispirata alle grandi utopie. Incontra ombre e doppi di celebri personaggi letterari e dello stesso Cristo. Infine si mette in viaggio verso il Polo Sud, incontro alla propria morte. Il Sole, sulla cui invocazione si apre il poema, lo conclude nel segno del lutto per la perdita di Odisseo: «stasera ho visto il mio amato svanire come un pensiero». Questo verso proviene dalla traduzione di alcuni brani dell’opera che Nicola Crocetti ha realizzato per il 'Meridiano' «Poeti greci del Novecento» (co-curatore Filippomaria Pontani), scrigno prezioso che meriterà approfondimento a parte. Già, perché di questa grandiosa epopea moderna, scommessa scandalosa, tentativo generoso e immoderato, non esiste una traduzione italiana, mentre ne esistono versioni in spagnolo, francese, tedesco e inglese. La lettura dei lacerti inseriti da Crocetti nel 'Meridiano' fa sentire più acuta la mancanza: quando si parla di epica e di impossibilità di produrne nella modernità e contemporaneità, forse si dovrebbe ripartire da qui. Dall’umile fatica di una traduzione, dalla disponibilità a leggere e a divulgare (anche nei volumi di epica delle scuole) lo smisurato poema dell’autore di Zorba il greco.
«Avvenire» del 22 dicembre 2010

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